forno – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Imu, il forno tradizionale hawaiano https://www.vitantica.net/2019/04/29/imu-forno-tradizionale-hawaiano/ https://www.vitantica.net/2019/04/29/imu-forno-tradizionale-hawaiano/#respond Mon, 29 Apr 2019 00:10:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4028 Chiunque abbia partecipato ad un luau (festa) hawaiano contemporaneo avrà trovato il maiale kalua come elemento fondamentale del menu. Tradizionalmente, il maiale viene cotto in una fossa interrata e servito all’interno di cestini intrecciati fatti di fronde di cocco, o su grandi foglie di banana.

Cottura a vapore tradizionale

Con il termine kālua si identifica un metodo di cottura tradizionale hawaiano che utilizza un imu, un forno scavato nel terreno. La parola kālua, che letteralmente significa “cucinare in un forno interrato”, può anche essere impiegata per descrivere il cibo cucinato seguendo questo metodo, come il maiale kālua comunemente servito nelle feste tradizionali (luau).

In tutta la Polinesia, la Melanesia, la Micronesia e le Americhe, i tradizionali forni interrati sono stati utilizzati per cuocere il cibo sfruttando il vapore. Gli hawaiani usavano un forno a pozzo per cuocere a vapore maiali interi, pane, banane, patate dolci, radici di taro (Colocasia esculenta), pollo e pesce.

Preparazione e accensione del forno hawaiano

Per costruire un imu occorre scavare nel terreno una buca circolare, profonda circa mezzo metro e con lati inclinati. Il diametro e la profondità della fossa saranno proporzionali alla quantità di cibo da cuocere. Il pozzo deve essere abbastanza grande da contenere non solo il cibo, ma anche rocce calde e vegetazione a sufficienza da generare vapore.

La terra dello scavo deve essere conservata: successivamente sarà usata per coprire l’imu e dare inizio al processo di cottura. Dopo aver scavato la buca occorre raccogliere il necessario per accendere un fuoco, come ramoscelli e qualsiasi altro materiale possa costituire un’esca.

Il materiale di accensione va posizionato al centro del pozzo, in modo simile a quello utilizzato per la realizzazione di un fuoco da campo. La legna più grande (preferibilmente legno denso e duro, che brucia più lentamente) viene accatastata attorno all’esca, facendo attenzione a selezionare legname che non possa conferire un sapore sgradevole al cibo.

Le pietre che effettueranno la cottura devono essere delle dimensioni di un pugno chiuso, non bagnate o umide (potrebbero esplodere) e dovranno essere posizionate sopra la catasta di legname; le pietre di basalto sembrano essere ideali per la loro capacità di accumulare e rilasciare calore e non frantumarsi facilmente con il cambio di temperatura.

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Una volta accesa la catasta centrale, il fuoco riscalderà le pareti della fossa e le pietre. Mentre il legno si tramuta lentamente in carbone, le rocce cadranno sulle braci, iniziando ad accumulare lentamente calore. Questo procedimento dura da 1 a 3 ore: occorre attendere che le pietre accumulino più calore possibile, disponendole uniformemente sul fondo del pozzo al termine dela fase di riscaldamento.

Raccolta di materiale vegetale

Poiché il processo di cottura richiede vapore e non semplice calore, sono necessari materiali vegetali verdi in grado di saturare il pozzo con il vapore che sprigioneranno.

Gli hawaiani utilizzavano erba e foglie: alcune delle piante impiegate tradizionalmente erano monconi di banana, foglie di ti, erba di honohono, foglie di banano e foglie di palma di cocco. Il termine usato oggi per descrivere il materiale vegetale verde e il suo uso è hali’i.

La selezione del materiale vegetale e la sua preparazione è una fase importante per garantire la giusta cottura degli alimenti. Se si usano i monconi di banano sarà necessario tagliarli in sezioni più piccole del diametro della fossa. Le sezioni sono tagliate longitudinalmente, a seconda delle dimensioni del tronco. I ceppi tagliati vengono quindi battuti con una pietra per rompere le fibre e rilasciare più facilmente l’umidità in esse contenuta.

Stratificazione e cottura

Quando le pietre calde sono pronte, è il momento di stratificare l’imu posizionando sullo strato più basso il materiale vegetale, per poi collocare il cibo sopra di esso. Il primo strato di hali’i è posto direttamente sopra le rocce calde per evitare che il cibo si bruci e per rilasciare grandi quantità di vapore.

Un secondo strato di hali’i viene posizionato sul primo strato. Questo secondo strato è importante, in quanto a diretto contatto con il cibo: aggiungerà sapore e aroma agli alimenti. Il cibo viene quindi adagiato sopra il materiale vegetale.

Se si sta cucinando un maiale intero, alcune pietre calde dovranno essere collocate anche all’interno della carcassa per assicurare una cottura uniforme. Un terzo strato di hali’i andrà a coprire il cibo: il metodo tradizionale prevede l’impiego di foglie giovani e intere di banana.

Imu, il forno tradizionale hawaiano

Il materiale di copertura del pozzo (come vecchi tappeti lauhala o tessuti tapa) viene quindi posato sopra l’imu. Il materiale di copertura deve estendersi oltre il diametro dell’apertura del pozzo: così facendo si eviterà la caduta di terra nell’imu quando il cibo verrà dissotterrato. L’ultimo strato di copertura è costituito da terra, spalata in modo uniforme per coprire interamente il pozzo ed evitare la fuoriuscita di vapore.

Il tempo necessario per la cottura dipende dal calore dell’ imu, dallo spessore dell’hali’i, dal tipo e dalla massa di cibo da cuocere. Un maiale intero di grandi dimensioni, in un buon imu caldo, può richiedere da 6 a 8 ore di tempo. A cottura ultimata, bisogna sollevare con attenzione il materiale di copertura ed evitare di sporcare l’interno dell’imu.

Per coloro che non hanno accesso a nessuna delle piante tradizionali hawaiane, è possibile utilizzare dei sostituti: qualsiasi pianta che possa fornire vapore, non renda sgradevole il sapore del cibo e non sia tossica, come lattuga, foglie di cavolo, crescione o foglie di pioppo.

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Imu – Hawaiian Underground Oven

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Le spade di ferro prima dell’acciaio https://www.vitantica.net/2018/02/28/le-spade-di-ferro-prima-dellacciaio/ https://www.vitantica.net/2018/02/28/le-spade-di-ferro-prima-dellacciaio/#respond Wed, 28 Feb 2018 02:00:41 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1402 Le prime spade dell’Età del Ferro erano molto differenti da quelle d’ acciaio apparse nei secoli successivi e le loro prestazioni erano bene o male identiche a quelle delle armi di bronzo realizzate nello stesso periodo.

Fu solo con l’immissione controllata di carbonio durante il processo di lavorazione del ferro che i fabbri dell’antichità riuscirono ad ottenere l’acciaio, un materiale dalle proprietà meccaniche superiori e ideale per la realizzazione di armi affilate, flessibili e durature.

Le prime spade di ferro

Le prime spade di ferro battuto iniziano a fare la loro apparizione in Europa circa 3.200 anni fa, ma la loro produzione non si diffuse fino all’ VIII secolo a.C.. Sebbene esistano esemplari di spade corte di ferro molto più vecchie, si tratta quasi sempre di armi molto pregiate destinate alle élite regnanti e realizzate con ferro meteorico.

Nel Vecchio Continente, la cultura celtica di Hallstatt sembra essere stata la prima ad utilizzare il ferro per la produzione di spade: nell’arco di due secoli (dall’ VIII al VI secolo a.C. circa) furono realizzate spade corte di bronzo e di ferro in egual misura, dalla tipica elsa col pomo “ad antenna”; fu solo con la cultura di La Tene (Svizzera) che venne realizzata la prima spada di ferro battuto dall’aspetto moderno.

Prima di arrivare alla produzione di spade, la cultura di Hallstatt si servi inizialmente del ferro per realizzare picconi e scalpelli utili ad estrarre sale dalle miniere di salgemma locali, che nel corso di qualche secolo diventarono il fulcro del commercio del sale nella regione prima di essere sostituite dalle vicine miniere di Hallein.

Evoluzione dell'elsa nelle prime spade di ferro
Evoluzione dell’elsa nelle prime spade di ferro

I fabbri dell’Età del Ferro furono costretti ad effettuare una transizione da bronzo a ferro e all’inizio non fu affatto semplice. Le prime spade di ferro battuto avevano prestazioni essenzialmente identiche a quelle di bronzo: tendevano a piegarsi dopo un certo numero di impatti e perdevano velocemente l’affilatura (a volte più velocemente rispetto alle armi di bronzo).

Ma l’uso del ferro comporta anche vantaggi innegabili: è uno dei metalli più diffusi in natura ed esistono almeno tre minerali dai quali è possibile estrarlo; il bronzo, invece, richiede rame, sufficientemente abbondante nella crosta terrestre, e stagno, un metallo relativamente raro, specialmente in antichità.

Ferro battuto

Le prime spade di ferro venivano indurite a colpi di martello, cercando di comprimere il più possibile il metallo per indurirlo e diminuirne la duttilità, ma nel corso del tempo ci si rese conto che con l’aggiunta di carbonio (sotto forma di carbone o di fibre vegetali) e con il processo di tempra si poteva ottenere un metallo molto più duro, flessibile e affilato capace di creare armi superiori: l’acciaio.

spade di ferro
Spade di ferro europee: in alto, spada del 1.000 a.C. rinvenuta in Repubblica Ceca e lunga 110 centimetri; in basso, Gundlingen di 53 centimetri scoperta in germania, con pomo bronzeo ad antenna.

Prima di aggiungere e dosare consapevolmente carbonio (anche se le contaminazioni accidentali erano del tutto naturali, utilizzando carbone come combustibile), le spade di ferro utilizzavano un procedimento che può essere definito “indurimento da battitura” nato con la produzione di armi e utensili di bronzo.

Dato che il bronzo non può essere temprato come l’acciaio, per indurirlo è necessario riscaldarlo e allungarlo a colpi di martello fino ad ottenere la forma desiderata: man mano che le dimensioni aumentano e lo spessore si riduce, il bronzo tenderà a indurirsi e a diventare meno duttile.

Dopo secoli di utilizzo di questa tecnica di indurimento del bronzo, i fabbri dell’Età del Ferro fecero affidamento su ciò che conoscevano per lavorare un metallo dalle proprietà ancora poco note e manipolabili. Battendo ripetutamente il ferro tenero per allungarlo e ottenere la forma desiderata, ne diminuivano parzialmente la duttilità e lo rendevano più resistente.

Spade più lunghe: Mindelheim e Gundlingen

Il ferro battuto consentì per la prima volta di produrre più facilmente spade di lunghezza superiore ai 60 centimetri: oltre queste dimensioni il bronzo tende a diventare un materiale dalle scarse proprietà meccaniche e poco pratico per ottenere lame lunghe e resistenti.

Per essere utile nel combattimento, una spada deve essere sufficientemente flessibile da non deformarsi o rompersi quando subisce un impatto, ma abbastanza dura lungo i bordi da poter ottenere un’affilatura in grado di durare nel tempo. Il ferro battuto, tuttavia, non permetteva di ottenere il giusto compromesso tra durezza e flessibilità, rendendo le prime spade dell’Età del Ferro superiori solo in lunghezza a quelle di bronzo.

Spada di tipo Mindelheim, piegata e sepolta ad Hallstatt
Spada di tipo Mindelheim, piegata ritualmente e sepolta ad Hallstatt

Le spade “Mindelheim” e “Gundlingen“, create dalla cultura di Hallstatt, furono probabilmente le prime spade europee ad effettuare la transizione tra bronzo e ferro. Le Gundlingen erano gli esemplari più comuni e somigliavano molto ai modelli in bronzo ancora in uso durante la loro produzione, anche se erano più lunghe (dai 70 ai 75 centimetri).

Le Mindelheim erano invece un’evoluzione delle spade Gundlingen, più decorate, più lunghe (solo due spade Mindelheim sono più corte di 80 centimetri) e dalla forma più simile a quella di una spada moderna.

Le prime spade di ferro dalle performance migliorate fecero la loro apparizione quando iniziò lo sfruttamento di giacimenti di minerali ferrosi che contenevano impurità di manganese, nickel, tungsteno, zolfo e arsenico: zolfo e arsenico venivano rimossi naturalmente dal calore del forno, mentre il manganese, il tungsteno e il nickel contribuivano a rendere il ferro più rigido. In antichità, i minerali di questo tipo venivano considerati superiori per la produzione di spade ed erano quasi esclusivamente impiegati per realizzare armi da taglio di primissima scelta.

Anche dopo aver ottenuto il controllo dell’acciaio (nel VI secolo a.C. in India esisteva una discreta produzione di “acciaio Wootz” apprezzato in tutto il mondo conosciuto), il ferro dolce continuò a trovare applicazioni belliche nonostante le sue proprietà meccaniche inferiori.

Il pilum, il tipico giavellotto romano per distanze ravvicinate, aveva la parte terminale di ferro dolce (esclusa la punta) per piegarsi all’impatto e incastrarsi nel telaio di uno scudo, rendendolo quasi inutilizzabile.

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Iron Age sword
The Mystique and Magic of the Sword
The Mindelheim Sword

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Primitive Technology: forni per metalli https://www.vitantica.net/2017/11/03/primitive-technology-forni-per-metalli/ https://www.vitantica.net/2017/11/03/primitive-technology-forni-per-metalli/#respond Fri, 03 Nov 2017 02:00:22 +0000 https://www.vitantica.net/?p=799 Lo scopo di questo progetto, pubblicato sull’ormai celebre canale Youtube “Primitive Technology” è quello di creare un basso fuoco (forno) per il ferro utilizzando solo materiali comunemente reperibili in natura e un design facilmente replicabile da chiunque.

La struttura è interamente realizzata in argilla, fango e legna, ma la particolarità di questo forno è l’ assenza di un mantice tradizionale: l’immissione di aria nel basso fuoco avviene utilizzando una sorta di ventola che viene fatta ruotare sfruttando lo stesso principio del trapano ad archetto o di quello a volano.
Questo forno non ha un vero e proprio tuyere, ma l’alloggiamento della ventola è direttamente connesso al corpo centrale del basso fuoco.

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Il secondo video, invece, rappresenta un esperimento per verificare le temperature raggiungibili in un basso fuoco privo di alcuna strumentazione capace di aumentare o migliorare il flusso d’aria in ingresso. Il forno riceve la sua aria tramite un tuyere passivo (non collegato a mantici o ventole) e riesce a raggiungere una temperatura di circa 1200 °C, utile per fondere rame e bronzo ma incapace di estrarre ferro dai minerali che lo contengono.

In questo video, il forno è stato alimentato da legna e non da carbone vegetale, raggiungendo la temperatura di 1200 °C in circa un’ora dall’accensione e senza la necessità di mantenere costante il flusso d’aria in ingresso manovrando mantici o ventole.

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Siderurgia antica: i forni dell’ Età del Ferro https://www.vitantica.net/2017/10/23/siderurgia-antica-i-forni-dell-eta-del-ferro/ https://www.vitantica.net/2017/10/23/siderurgia-antica-i-forni-dell-eta-del-ferro/#comments Mon, 23 Oct 2017 02:00:00 +0000 https://www.vitantica.net/?p=671 La fusione del ferro e la capacità di lavorarlo segnarono l’inizio di una nuova epoca di tecnologia militare e civile: anche se le proprietà del ferro puro non sono molto differenti da quelle del bronzo (forte malleabilità e scarsa durezza), se combinato con carbonio o altri elementi il ferro è in grado di acquisire proprietà particolari che lo rendono un materiale estremamente versatile e duraturo.

Il ferro puro o battuto, ad esempio, non tiene la tempra, caratteristica del tutto inutile se si vogliono realizzare strumenti affilati.

Aggiungendo una piccola dose di carbonio (fino al 2,11%), il ferro si trasforma in acciaio, una lega più dura e fragile del ferro dolce ma temprabile a caldo, dote ideale per ottenere il bordo affilato, caratteristica primaria di uno strumento da taglio efficace.

Dosando il contenuto di carbonio nella lega e combinando diverse leghe d’acciaio, è possibile creare lame resistenti, flessibili e affilate.

Origine della fusione del ferro

Gli antichi lavorarono il ferro meteorico (ad alto contenuto di nichel) contemporaneamente al bronzo, come dimostra la daga di Tutankhamon, ma la fusione del ferro a partire dai suoi ossidi richiede una tecnologia che non fece la sua comparsa prima del 1200 a.C., anche se probabilmente le prime estrazioni involontarie di questo metallo si verificarono prima di questa data nei “bassi fuochi” (forni) più tecnologicamente avanzati utilizzati per la fusione del bronzo.

La tecnologia per la fusione del ferro nacque grazie all’avanzamento tecnologico dei forni per metalli: quelli adatti a produrre il bronzo, infatti, inizialmente non riuscivano a raggiungere la temperatura di fusione del ferro (1538 °C).

Con l’impiego sempre più diffuso del carbone di legna come combustibile, le temperature dei bassi fuochi aumentarono considerevolmente rendendoli capaci di separare il ferro dalle scorie e di creare ferro spugnoso, un agglomerato di materiale definito “bluma” che contiene ferro metallico, carbone, resti di scorie e cenere.

Estrazione della bluma dal forno
Estrazione della bluma dal forno
Il basso fuoco, dove avviene la “magia del ferro”

I bassi fuochi dell’ Età del Ferro si possono suddividere in due gruppi: quelli “a scoria colata” espellono le scorie da un’apertura nel forno, mentre quelli “a pozzetto” contengono un apposito pozzetto che convoglia le scorie sul fondo del forno.

Le scorie altro non sono che i materiali di scarto che compongono i minerali ferrosi: con il superamento dei 1600°C, i minerali come i silicati iniziano a liquefarsi scendendo gradualmente per gravità verso il fondo del forno; il ferro, invece, non assume una forma realmente liquida e scende più lentamente verso il basso, goccia a goccia.

Per evitare che il raffreddamento di scorie e ferro li unisca in un blocco compatto e difficilmente utilizzabile, il materiale di scarto (che tende ad assumere forma liquida ad alte temperature) viene parzialmente eliminato praticando un foro sul fondo del basso fuoco o tramite un’apertura creata in fase di costruzione del forno.

I primi bassi fuochi della storia erano probabilmente monouso: l’accumulo di scorie all’interno del forno e la difficoltà nell’estrarre la bluma rendevano quasi inutilizzabile un basso fuoco dopo il primo utilizzo, o addirittura costringevano a demolirlo per estrarre il prezioso ferro ottenuto dalla fusione.

Struttura di un forno per la produzione di ferro
Struttura di un basso fuoco per la produzione di ferro
Il funzionamento del basso fuoco per la fusione del ferro

Un basso fuoco altro non è che un forno a ciminiera in argilla cotta, pietra o terra compatta, dalla cui sommità vengono introdotti carbone di legna e minerali ferrosi; uno o più condotti d’aerazione (chiamati tuyere) collegano il forno a mantici che riforniscono costantemente di ossigeno i processi di combustione interni al basso fuoco.

Per costruire e azionare un basso fuoco in grado di produrre ferro spugnoso occorrono tre ingredienti principali:

  • Argilla, pietra o terra: qualunque materiale refrattario in grado di sostenere temperature di circa 1.800-1.900 gradi per diverse ore. L’argilla viene generalmente lavorata per produrre mattoni mescolandola con paglia, che ne aumenta l’integrità strutturale e contribuisce a non far sbriciolare i mattoni quando l’argilla si seccherà eccessivamente a causa del calore;
  • Carbone: il carbone di legna fu il combustibile che consentì di raggiungere le temperature necessarie all’estrazione del ferro dai suoi minerali. Il carbone di legna brucia ad una temperatura di circa 2.000 °C, oltre la temperatura di fusione del ferro.
  • Aria: un flusso d’aria costante viene pompato dalla parte bassa del forno, alimentando la combustione, attraverso condotti di argilla o altro materiale refrattario, chiamati tuyere.

Una volta realizzata la struttura a ciminiera del basso fuoco, il forno viene sottoposto ad un’accensione preliminare utile a stabilizzare l’argilla ancora umida e a verificare l’integrità del dispositivo.

Quando il forno è caldo, inizia l’immissione dall’alto di carbone di legna fino alla sommità della ciminiera facendo attenzione a non estinguere le braci sottostanti; a questo punto, i mantici iniziano a pompare aria dal basso, alimentando la combustione fino a superare la temperatura di 1500 °C.

Roccia di ematite e quarzo
Roccia di ematite e quarzo
La fusione dei minerali di ferro

Con il forno a pieno regime può avere inizio l’inserimento di minerali ferrosi fatti precedentemente arrostire sulla fiamma viva per facilitare l’estrazione del ferro. I minerali utilizzati più comunemente nell’ antichità erano principalmente tre:

  • Magnetite: minerale ferromagnetico capace di diventare un magnete permanente. Contiene più del 70% di ferro, ma si trova generalmente in piccoli depositi ed è relativamente raro;
  • Ematite: minerale a base di ossidi di ferro e utilizzato largamente nei tempi antichi per via della sua facile reperibilità. Il suo contenuto di ferro è di circa il 70%;
  • Limonite: ampiamente utilizzata per millenni come seconda fonte principale di ossidi di ferro (contiene circa il 50% del metallo).

Il basso fuoco viene riempito dall’alto con minerali ferrosi semi-polverizzati alternati da strati di carbone in rapporto 1 a 1: la combustione del carbone di legna crea monossido di carbonio ad alta temperatura che reagisce con gli ossidi di ferro separando il ferro metallico dal materiale inutile.

Le scorie formano una sorta di “scodella” alla base del forno all’interno della quale si accumuleranno le particelle di ferro; per impedire di dover lavorare a lungo il ferro spugnoso ottenuto a fine processo o di otturare il tuyere che rifornisce d’aria il basso fuoco, le scorie vengono per la maggior parte eliminate praticando fori nella parte bassa del forno per farle defluire all’esterno.

Bluma ferrosa appena estratta dal forno
Bluma ferrosa appena estratta dal forno

Il risultato di diverse ore di combustione è la bluma, un agglomerato di particelle di ferro e scorie che si accumula sul fondo. Per estrarla, inizialmente si abbatteva completamente il basso fuoco, mentre nei forni più evoluti si poteva sfruttare un’apertura frontale praticata in fase di costruzione, utile anche per liberarsi delle scorie in eccesso senza dover praticare fori sulla struttura.

La bluma è spugnosa e deve essere battuta ripetutamente con un martello per eliminare la maggior parte delle scorie ancora intrappolate nella sua struttura.

E’ difficile determinare quanto materiale di partenza si trasformi effettivamente in ferro lavorabile, ma alcuni esperimenti effettuati in epoca moderna possono aiutarci: 10 chili di minerali ferrosi potevano produrre fino a 3 kg di ferro battuto da una bluma finale del peso di circa 6-7 kg.

Consiglio CALDAMENTE di vedere questo documentario sulla produzione di ferro in Africa secondo metodo tradizionali, probabilmente in uso da svariati millenni. Dura quasi 2 ore, ma è un esempio perfetto dell’ingegno e della tecnologia utilizzati dai nostri antenati.

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Per un video sulla fusione del ferro dalla durata più breve:

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Pane e farina: cenni storici https://www.vitantica.net/2017/09/18/pane-e-farina-cenni-storici/ https://www.vitantica.net/2017/09/18/pane-e-farina-cenni-storici/#comments Mon, 18 Sep 2017 07:00:47 +0000 https://www.vitantica.net/?p=309 Il pane è stato uno dei primissimi “cibi artificiali” prodotti dall’uomo e la sua origine risale ad almeno 30.000 anni fa. Nel corso della storia, il pane ha assunto significati che vanno ben oltre il solo valore nutritivo di questo alimento: in molte culture è diventato una metafora per i bisogni primari dell’essere umano, un segno di ospitalità e un cibo carico di significati religiosi e rituali.

Il pane prodotto in epoca primitiva era probabilmente prodotto a partire dall’ amido presente nelle radici di alcune piante spontanee come la tifa: la pianta veniva appoggiata su una roccia piatta, colpita con una pietra per liberare le riserve di amido e cucinando l’amido così ottenuto vicino al fuoco, ottenendo una sorta di “piadina”.

Ci sono tuttavia diverse testimonianze archeologiche in vari siti europei che dimostrerebbero che la produzione di farina d’avena, di miglio o di ghiande era comune 30 millenni or sono.

Il pane nell’ antico Egitto

Per il primo pane dall’aspetto vagamente moderno realizzato col frumento bisogna attendere circa 20.000 anni. Abbiamo un vasto repertorio di testimonianze archeologiche che provano come nell’Antico Egitto il pane fosse un cibo di prima necessità consumato in abbondanza.

Furono proprio gli Egizi, pare, a scoprire il processo di fermentazione naturale: lasciando esposto all’aria l’impasto per circa una giornata, gli antichi panificatori riuscivano ad ottenere pane più soffice e fragrante.

pane nell'Antico Egitto

Gli Egizi si resero conto, forse per caso, che lasciando esposto all’aria un impasto di farina e acqua ottenevano quella che oggi viene definita “pasta acida” o “pasta madre”: i batteri presenti nell’ambiente circostante trovano nell’impasto un ecosistema ideale per proliferare e per operare i loro processi metabolici.

Una delle ricette del pane più comune nell’ Antico Egitto è a base di farro emmer, un cereale che non era soltanto utilizzato a scopo alimentare, ma anche come forma di pagamento dato che rappresentava una sorta di moneta (come in Giappone fu il riso per molti secoli). Il farro è il più antico tipo di frumento coltivato dall’uomo e ha costituito la base alimentare di molti popoli antichi, Egizi e Romani inclusi.

Il primo passo per il pane di farro egizio era quello di trasformare questo cereale in farina pulendolo, facendolo essiccare e macinandolo per produrre una farina grezza che talvolta conteneva anche sabbia o altri elementi estranei.

Una volta ottenuta la farina, si preparava l’impasto aggiungendo acqua, sale ed eventuali componenti aggiuntivi come pezzi di datteri o semi di coriandolo; si lasciava a riposo per qualche ora e si cuoceva su una pietra rovente o in un forno di argilla. Il pane che si ottiene seguendo il metodo tradizionale ha una crosta dura e lucente, è piatto, denso, pesante e fragrante.

Il pane in Europa

Plinio il Vecchio racconta invece dell’utilizzo di birra e vino per ottenere lo stesso effetto della fermentazione naturale. I Galli e gli Iberi usavano la schiuma della birra per aumentare la sofficità del pane, mentre le popolazioni che solitamente bevevano vino invece della birra creavano il pane mescolando farina a mosto d’uva e lasciando fermentare l’impasto all’aria per qualche tempo.

Pagnotta scoperta ad Ercolano e risalente al 79 d.C.

Una testimonianza archeologica straordinaria sul pane della Roma antica risale al giorno esatto in cui il Vesuvio decise di eruttare nel 79 d.C., seppellendo Pompei ed Ercolano e soffocando mortalmente Plinio con le sue ceneri. Quello stesso giorno, un panettiere di Ercolano aveva infornato una pagnotta di farro con il suo nome stampato sulla crosta (“Proprietà di Celere, schiavo di Q. Granius Verus“) e l’aveva divisa in otto parti, pronta per essere servita.

Al momento dell’eruzione, la cenere che provocò la morte degli concittadini di Celere contribuì a conservare quella pagnotta per quasi 2000 anni, fino alla sua scoperta avvenuta durante gli scavi archeologici.

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Il pane in Grecia

Nell’antica Grecia era comune il pane d’orzo: ad un certo punto della storia di Atene, Solone decretò che quello di frumento lievitato doveva essere prodotto soltanto durante le festività.

Questo “limite” non fermò comunque la fantasia dei panificatori greci, tanto che Ateneo di Naucrati nel II secolo d.C. descrive una vasta gamma di prodotti a base di pane disponibili nel mondo greco: tra queste varietà c’è il pane al miele e quello ricoperto da semi di papavero, ricette che risalgono ad almeno 2200 anni fa.

Gli ateniesi consumavano quotidianamente circa 800 grammi a testa di pane e disponevano di oltre 66 varietà di pane e focaccia differenti per forma, ingredienti e utilizzo (alcuni tipi di pane erano realizzati solo a scopo cerimoniale); una di queste varietà, lo streptikios artos, conteneva pepe, un goccio di latte e olio d’oliva.

Il pane medievale

In epoca medievale, il pane rimase bene o male legato alle antiche ricette greche e romane. Essendo una fonte importante di carboidrati, era un alimento estremamente comune sia tra l’aristocrazia che tra il popolo minuto, tanto che un abitante europeo del XIV secolo ne consumava quotidianamente fino a 1,5 kg.

Nelle regioni meridionali d’Europa, in cui il frumento cresceva più abbondantemente, era comune trovare pane lievitato, mentre nel Nord Europa il pane era generalmente non lievitato e realizzato con avena, orzo o segale.

Il pane bianco, prodotto a partire dalla farina di frumento setacciata, era una prerogativa degli strati sociali più alti; le classi più povere si accontentavano del pane non lievitato oppure, in situazioni di carestia, otteneva la farina da fonti alternative come castagne, legumi secchi o ghiande.

L’evoluzione del pane è strettamente connessa a quella degli strumenti ideati per produrlo. Se inizialmente la macinazione di semi o radici necessitava di mortaio e pestello, oltre che di pazienza e tanto olio di gomito, con la nascita dei primi centri urbani sorse la necessità di produrre grandi quantità di farina delegando il lavoro a pochi fornai specializzati: fu così che nacquero le macine.

macina
Mola asinaria
Le macine per il pane

Gli antichi greci idearono quella che viene definita “macina di Olinto”, costituita da due pietre di forma rettangolare che venivano fatte scivolare una sull’altra; i semi d’orzo o frumento venivano inseriti nella macina tramite una fessura al centro della pietra superiore e la frizione tra le due pietre li sbriciolava.

Furono probabilmente i Romani i primi ad utilizzare macine di pietra a forma piramidale, cilindrica o a clessidra. Quest’ultima macina, chiamata mola asinaria, risale al 2-300 a.C. ed inizialmente era azionata da un animale (spesso un’asina) che forniva il movimento rotatorio necessario a macinare il frumento.

Nello stesso periodo in Grecia e in Asia Minore, macine molto simili a quelle romane ruotavano utilizzando la forza dell’acqua grazie ai primi mulini ad acqua orizzontali.

Intorno all’anno zero, anche i Romani iniziarono ad impiegare grandi mulini ad acqua verticali per azionare le loro macine. Il picco di tecnologia venne raggiunto con il mulino di Barbegal, alimentato da un acquedotto a due canali e munito di ben 16 ruote per la macinatura: le macine erano in grado di produrre fino a 4,5 tonnellate di farina al giorno, sufficiente a fornire pane in abbondanza ad almeno 10.000 persone.

 

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