ferro – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Ferro di torba, il metallo delle torbiere https://www.vitantica.net/2020/04/13/ferro-di-torba-metallo-torbiera/ https://www.vitantica.net/2020/04/13/ferro-di-torba-metallo-torbiera/#respond Mon, 13 Apr 2020 00:10:48 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4850 L’estrazione e la lavorazione del ferro segnarono un passo fondamentale per l’avanzamento tecnologico dei nostri antenati. Dopo aver realizzato che il ferro non è soltanto reperibile all’interno di rari meteoriti ferrosi, ma anche abbondante all’interno di depositi naturali e minerali, questo metallo rivoluzionò l’agricoltura, l’architettura, l’arte e la guerra.

In antichità, i minerali ferrosi più comuni impiegati per l’estrazione del ferro erano tre: magnetite, ematite e limonite. Questi tre minerali sono quelli che generalmente contengono la maggior quantità di ferro, ma ne esistono altri come la goethite, un idrossido di ferro relativamente ricco di prezioso metallo.

La goethite forma masse compatte che si generano grazie all’ossidazione di minerali ricchi di ferro. In alcune aree del pianeta, la goethite si forma attraverso la precipitazione dell’acqua presente nel suolo e forma agglomerati, assieme alla magnetite, che vengono definiti “ferro bruno”, o “ferro di torba”.

La formazione del ferro di torba

Le masse di ferro di torba hanno origine quando flussi d’acqua ricca di ferro, a basso pH e poco ossigenati raggiungono la superficie in prossimità di una torbiera o di una palude sfruttando fratture nel terreno o i punti di giunzione tra acqua ipogea e acqua di superficie.

Una volta raggiunta la luce, il ferro presente nell’acqua viene ossidato da batteri come il Thiobacillus ferrooxidans o il Thiobacillus thiooxidans, o legandosi con l’ossigeno secondo fenomeni naturali, causando la precipitazione di piccoli granuli ferrosi verso bacini di raccolta naturali.

Il processo di ossidazione viene favorito anche dalla presenza di alcune piante acquatiche o di superficie: queste forniscono ossigeno all’acqua e tendono ad attrarre sulle loro radici gli ossidi di ferro, facilitandone l’accumulo e la raccolta.

Il ferro di torba si forma tramite un procedimento lungo ma rinnovabile: in una torbiera sana, ricca d’acqua ferrosa e di piante, è possibile raccogliere agglomerati di minerali ferrosi circa una volta ogni generazione.

L’estrazione del ferro di torba

Le prime forme di estrazione del ferro di torba risalgono a circa il IV secolo a.C.. Il ferro di torba può essere lavorato con una tecnologia relativamente povera, dato che non deve essere fuso totalmente per rimuovere la maggior parte delle impurità.

Frammento di ferro di torba appena estratto
Frammento di ferro di torba appena estratto

Gli agglomerati di ferro di torba sono inoltre facilmente individuabili da un occhio esperto. Nell’antichità di identificavano i siti più promettenti osservando l’ambiente: vegetazione decolorata, ecosistema umido dominato da piante idrofile, e soluzioni o depositi rossastri in prossimità delle radici degli alberi.

Per estrarlo, si praticava un buco nel terreno con un bastone da scavo fino a raggiungere il deposito. Una volta raggiunto, si procedeva alla rimozione di strati di torba utilizzando appositi coltelli; dalle zolle di torba era possibile estrarre granuli ferrosi grandi quanto piselli.

La fusione tramite fornace o basso fuoco produceva generalmente il 10-20% di ferro rispetto alla massa iniziale di materiale, mentre il resto si accumula sotto forma di scorie. Durante la fusione, è possibile che venisse aggiunta calce per facilitare la lavorazione di materiale ricco di silicati: il ferro di torba tende a contenerne molti, e dopo la fusione creano una patina resistente alla ruggine, ideale per alcune applicazioni ma indesiderata per altre.

Nel sito scandinavo di Mosstrond, in Norvegia, sono state scoperte alcune fosse nei pressi di depositi di ferro di torba, impiegate per pretrattare i minerali ferrosi prima di fonderli. Le fosse, chiamate hellegyter, erano profonde 45 centimetri, larghe 60 cm e ricche di scorie (fino a 50 kg per fossa), suggerendo che siano state utilizzate per procedimenti di fusione di portata considerevole.

Il ferro di torba in Europa

Quando la lavorazione del ferro raggiunse la Danimarca e la Scandinavia intorno al 500 a.C., i popoli nordici iniziarono ad utilizzare il ferro di torba come materia prima. Anche in epoca vichinga il ferro di torba fu il materiale dominante nella produzione di utensili e armi, tanto da lasciar supporre che molti insediamenti norreni abbiano avuto origine grazie alla presenza di ferro di torba.

In Islanda si stabilì una fiorente industria della lavorazione del ferro di torba tramite le “fattorie del ferro”, grandi strutture dedicate alla fusione del metallo. Le piccole fattorie abitate da famiglie allargate erano sostanzialmente autosufficienti per quanto riguarda la produzione del ferro necessario a fabbricare attrezzi da lavoro.

Il ferro di torba è un ottimo materiale per fabbricare utensili per l’agricoltura. La facilità di raccolta e di lavorazione lascia supporre che qualunque contadino fosse potenzialmente in grado di produrre lingotti o barre di ferro da consegnare nelle mani di un fabbro di fiducia.

La colorazione rossiccia dell'acqua suggerirebbe la presenza di minerali di ferro
La colorazione rossiccia dell’acqua suggerirebbe la presenza di minerali di ferro

Il ferro di torba possiede inoltre caratteristiche che lo rendono ideale per l’impiego sulle navi: arrugginisce molto lentamente grazie ad una patina di silicati che protegge il metallo dall’attacco dell’acqua salata. Con il miglioramento della metallurgia norrena, il ferro di torba trovò quindi impiego anche sulle navi, sotto forma di chiodi o di giunture rinforzate resistenti all’ ossidazione.

Anche dopo il miglioramento delle procedure di fusione, il ferro di torba rimase fondamentale per la metallurgia medievale, specialmente per la fabbricazione di utensili a basso costo. In Russia il ferro di torba costituì la principale fonte di metallo fino al XVI secolo.

Il ferro di torba in America

Gli scavi condotti a L’Anse aux Meadows in Canada lasciano supporre che i primi esploratori norreni, intorno all’anno 1000, possano aver fuso e lavorato ferro di torba nel continente nordamericano. Nel sito è stato scoperto un blocco di scorie da 15 kg, formatosi a seguito della produzione di circa 3 kg di ferro lavorabile, e un cumulo di 98 chiodi di ferro, un metallo che i nativi non conoscevano e non sapevano lavorare.

E’ possibile che questi primi esploratori nordeuropei avessero la necessità di produrre chiodi e altri utensili di metallo per effettuare le riparazioni necessarie alla nave che li aveva condotti sulle coste canadesi; l’ipotesi è supportata anche dal fatto che, secondo le analisi degli archeologi, la fusione del ferro è stata condotta in modo grossolano, probabilmente da persone non esperte di metallurgia.

Nel XVII secolo, il ferro era ormai indispensabile nella vita quotidiana, da quella del contadino a quella del nobile. Considerata la vasta richiesta, la produzione di ferro era alla portata solo delle imprese estrattive più ricche. Le colonie nordamericane non producevano ferro e tutto il metallo veniva importato dall’Europa sotto forma di prodotto finito.

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John Winthrop si accorse che in Massachusetts era presente un’enorme quantità di ferro di torba in attesa di essere estratto e lavorato. Dopo aver ottenuto i fondi necessari, Winthrop fondò la Saugus Iron Works sul fiume Saugus, una rotta fluviale navigabile e ricco d’acqua ideale per la produzione di ferro di torba nei terreni umidi lungo le sponde.

L’impresa si rivelò vincente: la Saugus Iron Works iniziò a produrre ferro per tutte le colonie all’inizio del 1646. Al tempo si trattava di uno degli impianti più tecnologicamente avanzati del mondo e lavorava circa una tonnellata di metallo al giorno a partire dal ferro di torba estratto lungo le rive del fiume.

Bog Iron
VIKING EXPANSION AND THE SEARCH FOR BOG IRON
Saugus Iron Works National Historic Site
Iron Production in the Viking Age

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I sette metalli dell’antichità https://www.vitantica.net/2019/02/08/sette-metalli-antichita/ https://www.vitantica.net/2019/02/08/sette-metalli-antichita/#respond Fri, 08 Feb 2019 00:10:54 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3699 In tempi moderni siamo a conoscenza di circa 86-95 metalli sul totale di 118 elementi che popolano la tavola periodica. Il numero tende ad oscillare per via del fatto che le definizioni per metallo, non metallo e semimetallo subiscono cambiamenti a causa delle continue scoperte scientifiche e dell’assenza di una definizione universalmente riconosciuta delle loro proprietà.

Durante il XIII secolo Alberto Magno riuscì ad isolare l’arsenico e ad identificarlo come metallo, per quanto il suo utilizzo risalisse a tempi ben più antichi: nell’ Età del Bronzo, l’arsenico veniva spesso incluso nella leghe a base di rame e stagno per renderle più dure.

Prima della corretta identificazione dell’arsenico come metallo, gli antichi utilizzavano soltanto quelli che vengono definiti i “sette metalli dell’antichità“: oro, argento, rame, stagno, piombo, ferro e mercurio.

Su questi metalli le civiltà antiche basarono la loro ricchezza economica, il loro successo in battaglia, le loro ipotesi sul mondo naturale e i loro prodotti per la cura della persona.

Le ragioni dell’impiego di solo 7 metalli tra tutto il ventaglio di elementi metallici disponibili oggi sono da ascrivere alle loro caratteristiche fisiche e alla loro reperibilità.

Punto di fusione

Con l’eccezione del ferro, il penultimo metallo ad essere sfruttato lungo la linea temporale della lavorazione dei metalli, tutti gli altri 6 metalli dell’antichità possedevano un basso punto di fusione.

Ci primi forni per la fusione dei metalli non riuscivano a raggiungere temperature sufficienti a fondere alcuni dei metalli conosciuti. Di fatto, il ferro non veniva fuso nel senso letterale del termine, ma reso “morbido” per poterlo lavorare con più facilità.

cinabro minerale mercurio
Il cinabro non è altro che solfuro di mercurio sotto forma di minerale tossico

Il mercurio si trova raramente in stato nativo, molto più spesso all’interno di minerali come il cinabro, ma la sua bassissima temperatura di fusione (−38.829 °C) ne facilitava enormemente l’estrazione.

Stagno e piombo, dotati di punti di fusione molto bassi (rispettivamente 231 °C e 327 °C), potevano essere fusi utilizzando semplici forni alimentati da legna. Basta un accendino per fondere lo stagno, e la facilità di lavorazione del piombo lo resero uno dei metalli più utilizzati nell’antichità.

Argento e oro (il primo fonde a 961 °C, il secondo a 1064 °C) si trovano comunemente in forma nativa. Spesso l’oro non richiede la separazione da altri minerali per poter essere lavorato; l’argento invece si trova spesso sotto forma di galena, un mix di piombo e argento: la separazione dei metalli avveniva grazie ad un processo di separazione (coppellazione) basato sulle differenti temperature di fusione.

Anche il rame, con una temperatura di fusione di 1084 °C, si trova in forma nativa, ragione che lo portò ad essere impiegato dai nostri antenati migliaia di anni fa per realizzare asce (come quella di Ötzi), pugnali, scalpelli e tubature.

Per la lavorazione del ferro bisognerò tuttavia attendere l’evoluzione dei forni di fusione impiegati per gli altri metalli. Il ferro fonde a 1538 °C, una temperatura che fu raggiungibile solo utilizzando una combinazione di combustibili adatti (carbone), forni adeguati e una ventilazione costante in grado di massimizzare la produzione di calore.

Facilità di estrazione

Stagno, oro e argento si presentano comunemente anche in forma nativa, metallo puro non legato ad altri elementi. Lo stesso vale anche per il rame, ma si trova molto più abbondantemente all’interno di minerali come malachite e calcopirite.

Per separare il rame dai minerali che lo contengono occorre usare una fornace in grado di raggiungere almeno i 1089 °C. In passato tuttavia esistevano diversi depositi di rame nativo, come a Cipro e a Creta: poteva essere estratto semplicemente staccando pezzi di metallo dalla roccia.

Il mercurio può essere facilmente estratto dai composti che lo contengono scaldandoli a basse temperature: 500 °C sono sufficienti a separare questo metallo dal resto degli elementi.

Galena, mix di piombo e argento
Galena, mix di piombo e argento

Il piombo si trova spesso sotto forma di galena (solfuro di piombo), un minerale descritto da Plinio il Vecchio come “minerale di piombo”. E’ malleabile e fonde facilmente su carbone di legna producendo piccoe sfere di piombo.

La galena può contenere anche argento in percentuali variabili da 1 a 2%: in passato lo si estraeva semplicemente aggiungendo cenere d’ossa durante la combustione della galena per assorbire gli ossidi di piombo. Nell’antichità l’argento fu talvolta considerato più prezioso dell’oro e la galena rappresentò per secoli la principale fonte d’argento.

Rarità

Ad eccezione del ferro, uno dei metalli più diffusi in natura, gli altri sei metalli dell’antichità sono poco comuni o rari. Ma prima della scoperta delle modalità d’estrazione del ferro dai minerali che lo contengono, questo metallo era raro e l’unica fonte di ferro disponibile era quello di origine spaziale (ferro meteoritico).

Lo stagno, fondamentale per creare il bronzo, è un elemento relativamente raro nella crosta terrestre: 2 parti per milione (ppm) contro le 50.000 ppm del ferro, le 50 ppm del rame e le 14 ppm del piombo.

Le fonti di stagno erano rare nell’antichità, rarità che costrinse molti popoli produttori di bronzo ad istituire lunghe e complesse reti commerciali per estrarre la cassiterite (biossido di stagno), un minerale noto ai Greci (che chiamarono Cassiteridi alcune isole ricche di questo minerale) e citato da Plinio il Vecchio come principale fonte dello stagno utilizzato per la produzione del bronzo antico.

Cassiterite
Cassiterite

Il rame è l’ottavo metallo più abbondante sulla Terra. I suoi minerali sono presenti pressoché ovunque sul pianeta ed è facilmente riconoscibile nella sua forma nativa. Il rame è presente in oltre 160 minerali differenti, ma i più ricchi di questo metallo sono malachite, cuprite, calcopirite e crisocolla.

Il mercurio è un elemento estremamente raro nella crosta terrestre (circa 0,08 parti per milione). Dato che tende a non legarsi con moltissimi elementi che costituiscono la crosta terrestre, i minerali che lo contengono (come il cinabro) possono essere molto concentrati, con percentuali di mercurio fino al 2,5% della massa totale.

L’oro è un metallo relativamente raro (0,005 ppm nella crosta terrestre) che si manifesta prevalentemente in forma nativa principalmente sotto l’aspetto di piccole particelle, schegge o pepite incorporate in roccia come quarzo o pirite.

Anche l’argento è relativamente raro nella crosta terrestre (0,08 ppm) e si manifesta principalmente sotto forma di minerali come la galena. Essendo più reattivo dell’oro, si trova raramente in forma nativa, ragione per cui è stato considerato molto prezioso nei millenni passati: in Egitto veniva valutato più dell’oro fino al XV secolo a.C.

I sette metalli: facili da estrarre e da lavorare

Alla luce di queste informazioni, sembra evidente che la rarità dei metalli utilizzati nell’antichità non fosse un fattore così determinante per il loro impiego su larga scala quanto la loro facilità di manipolazione e il loro basso punto di fusione.

Malachite
Malachite

In assenza di analisi chimico-fisiche in grado di determinare l’esatta natura di un elemento, gli antichi contaminavano spesso i metalli che conoscevano con altri metalli a loro ignoti o semplicemente non identificati come tali: le contaminazioni volontarie e involontarie di arsenico nel bronzo antico furono frequenti, ma questo elemento non fu considerato un metallo fino a circa 700 anni fa.

La presenza in forma nativa di metalli come oro, argento e stagno semplificò sicuramente l’estrazione, ma ben presto i nostri antenati elaborarono metodi per estrarre i metalli che conoscevano dai minerali più comuni.

Di certo il basso punto di fusione aiutò nell’impresa: anche i forni utilizzati per la cottura della ceramica erano in grado di fondere metalli come stagno, piombo, mercurio, oro, argento e rame, aprendo il campo alla lavorazione dei metalli a qualunque civiltà conoscesse le tecniche di costruzione di forni efficienti.

Metals of antiquity
A Short History of Metals

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Primitive Technology: fornace con ciminiera per la fusione del ferro https://www.vitantica.net/2018/12/18/primitive-technology-fornace-ciminiera-fusione-ferro/ https://www.vitantica.net/2018/12/18/primitive-technology-fornace-ciminiera-fusione-ferro/#respond Tue, 18 Dec 2018 00:10:15 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3322 Primitive Technology ha realizzato un forno sperimentale per la fusione del ferro che funziona sfruttando una corrente naturale generata dalla stessa conformazione della fornace.

Il carbone che alimenta la fusione viene depositato sopra una grata sospesa sulla sezione verticale del pozzetto d’areazione sotterraneo; la ciminiera è alta circa 2 metri mentre la camera di fusione interna è larga circa 25 centimetri.

Rispetto alle altri fornaci realizzate da Primitive Technology, questa ha prodotto una quantità inferiore di ferro consumando bene o male la stessa quantità di carbone delle versioni precedenti.

L’obiettivo non era l’efficienza, ma la minimizzazione del lavoro umano sui mantici solitamente impiegati per creare un flusso d’aria.

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Archeologia sperimentale: forni di fusione del ferro a Meroe https://www.vitantica.net/2018/10/23/archeologia-sperimentale-forni-di-fusione-del-ferro-a-meroe/ https://www.vitantica.net/2018/10/23/archeologia-sperimentale-forni-di-fusione-del-ferro-a-meroe/#respond Tue, 23 Oct 2018 02:00:40 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2361 UCL Qatar conduce dal 2012 un’investigazione su larga scala sulla produzione di ferro nei siti meroitici di Hamabad. Utilizzando la geofisica per tentare di localizzare i resti degli antichi forni di fusione del ferro e analizzando i resti delle fornaci, sono state effettuate numerose scoperte utili a ricostruire le antiche metodologie di fusione del ferro.

Nel gennaio 2015, per diffondere le informazioni sulle tecniche di lavorazione del ferro locali, la UCL Qatar ha creato il primo festival della fusione del ferro a Meroe. La città di Meroe, nella moderna Repubblica del Sudan, è stata la capitale del Regno di Kush a partire dal III secolo a.C., periodo in cui i regnanti di Kush controllavano una vasta regione lungo le rive del Nilo.

Meroe ha fornito una quantità enorme di reperti legati alla lavorazione del ferro, reperti raccolti e analizzati nel corso degli ultimi decenni e risultati molto utili per l’archeologia sperimentale e i suoi tentativi di riprodurre le antiche tecniche di fusione e lavorazione di questo metallo.

Gli abitanti di Meroe si servivano di fornaci alimentate da carbone e in grado di generare il calore sufficiente a ridurre gli ossidi di ferro ad un blocco solido e rovente di metallo. L’ossigeno necessario a questo procedimento veniva fornito da mantici o incanalato naturalmente tramite un “effetto ciminiera” provocato dalla forma stessa dei forni.

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Lo scramasax https://www.vitantica.net/2018/05/22/scramasax-seax/ https://www.vitantica.net/2018/05/22/scramasax-seax/#comments Tue, 22 May 2018 02:00:06 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1698 Lo scramasax era una lama a filo singolo tipica delle popolazioni germaniche e norrene. Più comunemente definito seax (definito anche sax, kramasak hadseax, seaxe o scramaseax),  si trattava di un coltello dalla lama lunga tra i 30 e i 60 centimetri e dall’impugnatura in materiali poveri come legno, corno o osso.

Nel corso dei secoli il sax divenne uno status-symbol, specialmente nelle culture del Nord Europa: solo gli uomini liberi potevano indossare armi in pubblico e la presenza di un sax alla cintura rendeva immediatamente identificabile il rango sociale di un individuo.

Scramasax: lama economica per la gente comune

In epoca vichinga, la spada era un lusso che molti uomini liberi non potevano permettersi: il ferro era un materiale prezioso, i fabbri in grado di lavorarlo per realizzare una spada degna di tale nome (leggi questo articolo sui miti e i luoghi comuni legati alle spade antiche) erano pochi e la creazione di una lama lunga, resistente, flessibile e affilata richiedeva mesi di duro lavoro e un investimento economico fuori dalla portata di moltissimi combattenti.

Anche disponendo di fondi sufficienti per l’acquisto una spada, l’arma sarebbe stata sprecata per usi quotidiani e pesanti come il taglio materiali duri o la lavorazione di una carcassa animale; per questo tipo di lavoro pesante è necessaria una lama più corta, resistente, pesante ed economica, un coltello di dimensioni medio-lunghe e versatile al punto tale da poter essere usato sia quotidianamente come utensile sia in battaglia come ultima arma d’offesa.

Tutti i sax rinvenuti fino ad oggi hanno caratteristiche distintive comuni, ma si presentano sotto forme anche molto differenti: come lama lunga o corta, dal filo dritto o ricurvo, dotata o meno di decorazioni di bronzo o rame.

Intorno al VII secolo d.C. ad esempio fecero la loro apparizione i primi langseax (sax lunghi), più simili a spade che a coltelli ma dotati di una lama a doppio filo e più leggera rispetto agli esemplari più corti. La maggior parte dei sax tuttavia ha un solo lato tagliente e una singola curvatura del dorso o del filo.

Il seax di Beagnoth (o seax del Tamigi), un'arma risalene al X secolo e attualmente custodita al British Museum of London. E' lunga in totale 72 centimetri, pesa quasi 1 kg e riporta per intero l'alfabeto runico anglosassone.
Il seax di Beagnoth (o seax del Tamigi), un’arma risalene al X secolo e attualmente custodita al British Museum of London. E’ lunga in totale 72 centimetri, pesa quasi 1 kg e riporta per intero l’alfabeto runico anglosassone.

Il sax aveva due forme tipiche: la prima prevedeva una dolce curvatura del dorso dalla punta dell’arma fino all’estremità opposta del codolo; la seconda invece era composta da un codolo centrale, una lama dritta per buona parte della sua lunghezza e un’interruzione brusca del dorso in prossimità della punta (“dorso spezzato”), fornendo una particolare angolatura nei centimetri finali dell’arma.

Considerata la sua larga diffusione tra gli uomini liberi dell’Europa centrale e settentrionale, la maggior parte degli esemplari di seax veniva realizzata da fabbri locali e non da armaioli specializzati.

Un coltello robusto e affidabile

La lama di un sax era di fattura più semplice e grossolana, tendeva ad essere più pesante e spessa di quella di una spada realizzata da un esperto armaiolo, con un dorso (il lato non tagliente) spesso fino a 8 millimetri.

La funzione principale del sax era quella di tagliare o troncare con velocità ed efficienza; il suo costo di fabbricazione ridotto, la sua semplicità e la facilità di riparazione lo resero quindi uno strumento d’uso quotidiano resistente e riparabile dalla maggior parte dei fabbri non specializzati che vivevano nelle piccole comunità rurali.

Seax a lama larga e dorso troncato, circa VIII secolo
Seax a lama larga e dorso troncato, circa VIII secolo

L’impugnatura in legno, corno o osso poteva essere facilmente sostituita da chiunque avesse il livello di manualità necessario a sopravvivere nelle comunità nordeuropee. Il dorso massiccio e pesante veniva impiegato anche come martello, ad esempio per rompere ossa animali ed estrarre il nutriente midollo.

Qualche seax fu tuttavia realizzato con estrema cura e da mani esperte: alcuni esemplari risalenti all’ VIII secolo sono stati realizzati con la tecnica del “Damasco saltato”, che prevede la battitura e ripiegatura continue del ferro che compone la lama allo scopo di formare un motivo decorativo che emerge quando il corpo dell’arma viene immerso in una soluzione acida. Queste armi dimostrano l’utilizzo di tecniche di forgiatura sofisticate e costose che solo gli uomini liberi più ricchi potevano permettersi.

Arma versatile e “riciclabile”

Il sax era generalmente indossato orizzontalmente all’altezza della cintura, con il filo della lama rivolto verso l’alto per impedire che l’estrazione ripetuta e quotidiana dell’arma tagliasse il fodero.

Per quanto il suo utilizzo fosse principalmente estraneo alla battaglia, il sax si rivelò un’ottima arma da combattimento ravvicinato in numerosissime occasioni, divenendo per alcuni guerrieri un’arma preferibile alla spada quando il nemico raggiungeva il suo raggio d’azione.

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In linea di massima, molte delle tecniche di combattimento norrene che prevedono l’uso di spada e scudo si adattano bene all’impiego di un seax. Questo lungo coltello è facilmente occultabile dietro uno scudo, aprendo il campo ad attacchi a sorpresa imprevedibili e letali.

La forma del sax restringeva tuttavia la sua versatilità nel combattimento: l’unico filo tagliente limitava la varietà di fendenti letali e la pesantezza dell’arma poteva facilmente stancare chi la impugnava.

La versatilità del sax non risiedeva esclusivamente nei suoi molteplici utilizzi come arma o utensile. Il ferro era un materiale prezioso nell’antichità e veniva continuamente riciclato sotto forme differenti.

Un sax danneggiato poteva, in alcune circostanze, essere riparato da un fabbro esperto, ma non era affatto raro che venisse invece utilizzato come fonte di metallo per la realizzazione di utensili agricoli o coltelli corti (che in epoca vichinga differivano dai sax principalmente per la loro lunghezza, inferiore ai 20 centimetri).

The Anglo Saxon Broken Back Seax
Viking Sax
Seax of Beagnoth

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L’ascia da battaglia norrena https://www.vitantica.net/2018/03/22/ascia-da-battaglia-norrena-vichinghi/ https://www.vitantica.net/2018/03/22/ascia-da-battaglia-norrena-vichinghi/#comments Thu, 22 Mar 2018 02:00:26 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1491 Costruire spade d’acciaio in grado di essere efficaci in battaglia non era affatto semplice durante l’epoca delle grandi incursioni vichinghe: per quanto il ferro sia uno dei metalli più abbondanti in natura, l’estrazione e la lavorazione di questo metallo non sono procedure semplici o veloci, specialmente se lo scopo è quello di ottenere una lama lunga, flessibile e tagliente.

Fabbricare una spada richiede una discreta quantità di ferro e una grande dose di precisione; al contrario, la fabbricazione di un’ascia di ferro risulta tecnicamente più semplice e richiede l’impiego di una quantità inferiore di metallo.

La praticità dell’ ascia

Fu principalmente per ragioni di praticità che tra i Vichinghi l’ascia divenne lo strumento d’uso quotidiano o da battaglia più diffuso. Produrre un’ascia di ferro battuto è molto più economico e pratico rispetto alla costruzione di una spada:

  • non è necessario trasformare tutto il ferro in acciaio arricchendolo di carbonio con una procedura che richiede attenzione e precisione;
  • la quantità di metallo necessaria per la realizzazione di una testa d’ascia è inferiore a quella necessaria per una spada;
  • la forma stessa della testa d’ascia, compatta e corta, limita le deformazioni del ferro dovute agli impatti con superfici dure. Una spada di ferro battuto, invece, tende a piegarsi per via della sua scarsa flessibilità e della “dolcezza” del metallo.

Nella Scandinavia norrena l’ ascia di ferro battuto era un utensile in dotazione ad ogni uomo libero ed era ideale per una molteplicità di utilizzi, dal tagliare e spaccare la legna alla costruzione di case e barche, senza trascurare l’impiego in battaglia come arma rapida, agile e letale.

Asce da battaglia vichinghe e punte di lancia rinvenute nel 1920 nei pressi del London Bridge e attualmente conservate al Museum of London
Asce da battaglia vichinghe e punte di lancia rinvenute nel 1920 nei pressi del London Bridge e attualmente conservate al Museum of London

L’ascia è uno strumento apparentemente semplice, ma nella sua stessa semplicità si celano le caratteristiche che la rendono un’ arma estremamente versatile: se impugnata lontano dalla testa di metallo può impartire colpi potenti, capaci di spaccare facilmente un ceppo di legno o di sfondare scudi o corazze leggere; se manovrata con un’impugnatura più “alta”, invece, diventa un utile strumento per lavorare il legno con precisione o infliggere ferite veloci e profonde alla stregua di un coltello.

Le varietà di ascia vichinga

Le asce vichinghe venivano prodotte in diverse forme e dimensioni in base al loro utilizzo. Le scuri destinate al taglio del legno avevano generalmente una testa metallica più corta e tozza, adatta a resistere all’impatto con ceppi di legno duro e compatto.

Le asce progettate per il combattimento disponevano invece di una lama più larga e sottile (spesso barbuta o appuntita) per alleggerire l’arma e renderla agile e veloce nello scontro ravvicinato.

Le asce più efficaci (e costose) erano dotate di un filo d’acciaio saldato sul corpo di ferro battuto della testa dell’arma e richiedevano un lavoro più preciso e complesso rispetto a quelle d’uso comune.

Ascia da battaglia a due mani e testa di lancia risalenti probabilmente al X secolo.
Ascia da battaglia a due mani e testa di lancia risalenti probabilmente al X secolo.

Per quanto le asce fossero prodotte in varie forme o dimensioni, le più comuni e diffuse potevano essere manovrate con una sola mano. Le asce da guerra più pesanti, che richiedevano l’uso di due mani per essere manovrate, erano invece dotate di una testa metallica pesante e di un’impugnatura lunga capace di raggiungere il nemico mantenendo l’utilizzatore a distanza di sicurezza da armi come lance, spade, mazze e coltelli.

Le asce da guerra ad una mano avevano un’impugnatura (generalmente in frassino o rovere) che poteva raggiungere i 100 centimetri di lunghezza e una testa dotata di lama il cui filo era lungo dai 7 ai 15 centimetri.

Queste asce erano compatte, leggere e ben bilanciate, progettate per non affaticare eccessivamente l’utilizzatore e per essere comodamente portate alla cintura ed estratte rapidamente con una sola mano.

Le asce lunghe da battaglia (come l’ascia danese, o Långyxa) avevano invece dimensioni superiori: il filo della lama poteva raggiungere i 45 centimetri di lunghezza, mentre l’asta su cui era innestata la testa dell’arma era lunga generalmente 1,5-2 metri e spesso rinforzata con strisce di metallo per proteggerla dall’impatto con le armi del nemico.

Le asce da combattimento a una mano realizzate dai popoli norreni subirono lentamente un’evoluzione che portò all’allungamento della lama dell’arma fino a formare una “barba” (ascia Skeggöx), una sorta di uncino che veniva impiegato per agganciare uno scudo e creare aperture nella difesa del nemico sfruttando la leva vantaggiosa che l’asta dell’arma offriva al suo operatore.

La lama di un’ ascia barbuta aveva un bordo superiore quasi dritto mentre quello inferiore risultava allungato e leggermente ricurvo: questo design non solo consentiva all’arma di incastrarsi in scudi, caviglie e abiti, ma garantiva una maggior efficacia nei colpi da taglio.

Un altra evoluzione nel design delle asce da combattimento fu l’introduzione, nelle asce da battaglia di grandi dimensioni come quelle danesi, di un bordo superiore appuntito che consentiva di effettuare anche affondi simili a quelli di una lancia.

Tecnica per la realizzazione del punto d'innesto tra la testa d' ascia e il manico
Tecnica per la realizzazione del punto d’innesto tra la testa d’ ascia e il manico
Problemi e vantaggi dell’ascia

Il punto d’innesto della testa dell’ascia (il punto di giunzione tra la testa e il manico) era un aspetto critico per la stabilità, la precisione e la resistenza dell’intera arma.

L’ascia era un’arma molto versatile durante il combattimento ma la sua stessa versatilità richiedeva che la testa e il manico fossero innestati saldamente per resistere a impatti, trazioni e spinte.

Non era raro la testa di un’ascia si staccasse dal manico durante la battaglia se il punto d’innesto non era sufficientemente saldo, lasciando il guerriero armato di un semplice bastone.

La saga di Harðar è una delle testimonianze più celebri di questo incidente: dopo aver ucciso sei uomini con la sua ascia da guerra, la testa dell’arma di Harðar si staccò dal manico, lasciando il guerriero incapace di difendersi dai colpi delle asce nemiche che lo portarono alla morte.

L’ascia è un’arma sbilanciata per natura, ponendo la maggior parte del peso dello strumento verso una sola estremità. Questo potrebbe dare l’impressione che l’ascia sia un’arma difficilmente manovrabile con agilità, specialmente se paragonata ad una spada; ma un’ascia ben costruita risulta un’arma estremamente versatile e maneggevole nelle mani di un guerriero esperto.

Le asce corte di buona fattura realizzate intorno al X-XII secolo avevano un peso complessivo inferiore ad 1 kg, meno di alcune spade fabbricate nello stesso periodo.

Quando si manovra un’arma così leggera, il bilanciamento della massa non è così rilevante e un adulto allenato al combattimento può adoperarla con efficacia e precisione sorprendenti.

Rispetto ad una spada, l’impatto di un’ascia dalla lama ricurva risulta più efficace. Il naturale sbilanciamento della massa dell’arma verso l’estremità affilata e curva consente di massimizzare la potenza del colpo e concentrarla in una piccola sezione della lama.

Le saghe norrene, benché spesso al limite tra realtà e fantasia, parlano frequentemente di fendenti d’ascia verticali così potenti da spaccare un cranio e penetrarlo fino all’altezza delle spalle.

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Uno degli aspetti poco considerati dell’ascia è la sua capacità di ancorarsi ad oggetti e corpi. Le asce barbute o da battaglia potevano facilmente ancorarsi a scudi e abiti del nemico e sbilanciarlo fino a mostrare il fianco o a perdere l’equilibrio, ma potevano essere utilizzate anche per afferrare qualunque parte del corpo, dalle caviglie alla testa. Le asce da battaglia furono addirittura utilizzate per facilitare le arrampicate durante la scalata delle fortificazioni nemiche.

Contrariamente all’immagine dei Vichinghi ormai salda nell’immaginario collettivo, non c’è traccia nelle saghe e nei reperti archeologici di asce bipenni, dotate di una testa munita di due lame diametralmente opposte.

Non abbiamo inoltre alcuna prova che le asce fossero regolarmente protette da foderi, come accadeva per le spade, i coltelli, gli scramasax o le lance: è molto probabile che i popoli norreni fossero soliti trasportare le asce d’uso comune e dal manico corto assicurate ad un anello della cintura.

Viking Age Arms and Armor: Viking Axe
THE VIKING AXE by Tyr Neilsen

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Le spade di ferro prima dell’acciaio https://www.vitantica.net/2018/02/28/le-spade-di-ferro-prima-dellacciaio/ https://www.vitantica.net/2018/02/28/le-spade-di-ferro-prima-dellacciaio/#respond Wed, 28 Feb 2018 02:00:41 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1402 Le prime spade dell’Età del Ferro erano molto differenti da quelle d’ acciaio apparse nei secoli successivi e le loro prestazioni erano bene o male identiche a quelle delle armi di bronzo realizzate nello stesso periodo.

Fu solo con l’immissione controllata di carbonio durante il processo di lavorazione del ferro che i fabbri dell’antichità riuscirono ad ottenere l’acciaio, un materiale dalle proprietà meccaniche superiori e ideale per la realizzazione di armi affilate, flessibili e durature.

Le prime spade di ferro

Le prime spade di ferro battuto iniziano a fare la loro apparizione in Europa circa 3.200 anni fa, ma la loro produzione non si diffuse fino all’ VIII secolo a.C.. Sebbene esistano esemplari di spade corte di ferro molto più vecchie, si tratta quasi sempre di armi molto pregiate destinate alle élite regnanti e realizzate con ferro meteorico.

Nel Vecchio Continente, la cultura celtica di Hallstatt sembra essere stata la prima ad utilizzare il ferro per la produzione di spade: nell’arco di due secoli (dall’ VIII al VI secolo a.C. circa) furono realizzate spade corte di bronzo e di ferro in egual misura, dalla tipica elsa col pomo “ad antenna”; fu solo con la cultura di La Tene (Svizzera) che venne realizzata la prima spada di ferro battuto dall’aspetto moderno.

Prima di arrivare alla produzione di spade, la cultura di Hallstatt si servi inizialmente del ferro per realizzare picconi e scalpelli utili ad estrarre sale dalle miniere di salgemma locali, che nel corso di qualche secolo diventarono il fulcro del commercio del sale nella regione prima di essere sostituite dalle vicine miniere di Hallein.

Evoluzione dell'elsa nelle prime spade di ferro
Evoluzione dell’elsa nelle prime spade di ferro

I fabbri dell’Età del Ferro furono costretti ad effettuare una transizione da bronzo a ferro e all’inizio non fu affatto semplice. Le prime spade di ferro battuto avevano prestazioni essenzialmente identiche a quelle di bronzo: tendevano a piegarsi dopo un certo numero di impatti e perdevano velocemente l’affilatura (a volte più velocemente rispetto alle armi di bronzo).

Ma l’uso del ferro comporta anche vantaggi innegabili: è uno dei metalli più diffusi in natura ed esistono almeno tre minerali dai quali è possibile estrarlo; il bronzo, invece, richiede rame, sufficientemente abbondante nella crosta terrestre, e stagno, un metallo relativamente raro, specialmente in antichità.

Ferro battuto

Le prime spade di ferro venivano indurite a colpi di martello, cercando di comprimere il più possibile il metallo per indurirlo e diminuirne la duttilità, ma nel corso del tempo ci si rese conto che con l’aggiunta di carbonio (sotto forma di carbone o di fibre vegetali) e con il processo di tempra si poteva ottenere un metallo molto più duro, flessibile e affilato capace di creare armi superiori: l’acciaio.

spade di ferro
Spade di ferro europee: in alto, spada del 1.000 a.C. rinvenuta in Repubblica Ceca e lunga 110 centimetri; in basso, Gundlingen di 53 centimetri scoperta in germania, con pomo bronzeo ad antenna.

Prima di aggiungere e dosare consapevolmente carbonio (anche se le contaminazioni accidentali erano del tutto naturali, utilizzando carbone come combustibile), le spade di ferro utilizzavano un procedimento che può essere definito “indurimento da battitura” nato con la produzione di armi e utensili di bronzo.

Dato che il bronzo non può essere temprato come l’acciaio, per indurirlo è necessario riscaldarlo e allungarlo a colpi di martello fino ad ottenere la forma desiderata: man mano che le dimensioni aumentano e lo spessore si riduce, il bronzo tenderà a indurirsi e a diventare meno duttile.

Dopo secoli di utilizzo di questa tecnica di indurimento del bronzo, i fabbri dell’Età del Ferro fecero affidamento su ciò che conoscevano per lavorare un metallo dalle proprietà ancora poco note e manipolabili. Battendo ripetutamente il ferro tenero per allungarlo e ottenere la forma desiderata, ne diminuivano parzialmente la duttilità e lo rendevano più resistente.

Spade più lunghe: Mindelheim e Gundlingen

Il ferro battuto consentì per la prima volta di produrre più facilmente spade di lunghezza superiore ai 60 centimetri: oltre queste dimensioni il bronzo tende a diventare un materiale dalle scarse proprietà meccaniche e poco pratico per ottenere lame lunghe e resistenti.

Per essere utile nel combattimento, una spada deve essere sufficientemente flessibile da non deformarsi o rompersi quando subisce un impatto, ma abbastanza dura lungo i bordi da poter ottenere un’affilatura in grado di durare nel tempo. Il ferro battuto, tuttavia, non permetteva di ottenere il giusto compromesso tra durezza e flessibilità, rendendo le prime spade dell’Età del Ferro superiori solo in lunghezza a quelle di bronzo.

Spada di tipo Mindelheim, piegata e sepolta ad Hallstatt
Spada di tipo Mindelheim, piegata ritualmente e sepolta ad Hallstatt

Le spade “Mindelheim” e “Gundlingen“, create dalla cultura di Hallstatt, furono probabilmente le prime spade europee ad effettuare la transizione tra bronzo e ferro. Le Gundlingen erano gli esemplari più comuni e somigliavano molto ai modelli in bronzo ancora in uso durante la loro produzione, anche se erano più lunghe (dai 70 ai 75 centimetri).

Le Mindelheim erano invece un’evoluzione delle spade Gundlingen, più decorate, più lunghe (solo due spade Mindelheim sono più corte di 80 centimetri) e dalla forma più simile a quella di una spada moderna.

Le prime spade di ferro dalle performance migliorate fecero la loro apparizione quando iniziò lo sfruttamento di giacimenti di minerali ferrosi che contenevano impurità di manganese, nickel, tungsteno, zolfo e arsenico: zolfo e arsenico venivano rimossi naturalmente dal calore del forno, mentre il manganese, il tungsteno e il nickel contribuivano a rendere il ferro più rigido. In antichità, i minerali di questo tipo venivano considerati superiori per la produzione di spade ed erano quasi esclusivamente impiegati per realizzare armi da taglio di primissima scelta.

Anche dopo aver ottenuto il controllo dell’acciaio (nel VI secolo a.C. in India esisteva una discreta produzione di “acciaio Wootz” apprezzato in tutto il mondo conosciuto), il ferro dolce continuò a trovare applicazioni belliche nonostante le sue proprietà meccaniche inferiori.

Il pilum, il tipico giavellotto romano per distanze ravvicinate, aveva la parte terminale di ferro dolce (esclusa la punta) per piegarsi all’impatto e incastrarsi nel telaio di uno scudo, rendendolo quasi inutilizzabile.

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Iron Age sword
The Mystique and Magic of the Sword
The Mindelheim Sword

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L’acciarino antico e moderno https://www.vitantica.net/2018/01/16/acciarino-antico-moderno/ https://www.vitantica.net/2018/01/16/acciarino-antico-moderno/#comments Tue, 16 Jan 2018 02:00:53 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1269 Prima dell’invenzione dei fiammiferi moderni (avvenuta intorno alla metà del XIX secolo), i metodi più comuni per accendere un fuoco erano principalmente due: frizione e percussione. Le tecniche a frizione, tra cui il trapano ad arco, sono state impiegate fino ad epoche storiche relativamente recenti e non sono soltanto tipiche delle comunità semi-primitive.

I popoli norreni, ad esempio, conoscevano benissimo il trapano a mano o ad arco, anche se le alternative a percussione disponibile all’epoca si rivelavano spesso più efficaci e veloci: l’ acciarino a pietra focaia o l’ acciarino metallico.

I metodi di accensione del fuoco basati sulla percussione, come l’acciarino, sono nati in tempi remoti utilizzando pietre dalla differente composizione cristallina in grado di produrre scintille se sottoposte ad un violento stress meccanico.

Come funziona un acciarino metallico

L’evoluzione dell’acciarino primitivo verso quello metallico ebbe inizio con la capacità di controllare il contenuto di carbonio nei forni per la fusione del ferro, abilità che consente di creare acciaio.

L’acciaio che compone l’acciarino è essenzialmente un sostituto della pirite ferrosa utilizzata in combinazione con la selce / pietra focaia per la produzione di scintille.

Rispetto alla pirite, l’acciaio ha diversi vantaggi:

  • Non viene eroso sensibilmente ad ogni percussione, contrariamente alla pirite. Un acciarino moderno in ferro-cerio ha una vita ben superiore alle 1.000 accensioni;
  • E’ in grado di creare scintille a temperatura più elevata rispetto all’impiego di pirite ferrosa. Le scintille sono inoltre più numerose e grandi se paragonate a quelle prodotte con la selce;
  • Consente di ottenere un tizzone anche in condizioni umide grazie all’alta temperatura delle scintille;
  • Un acciarino è sostanzialmente impermeabile e capace di funzionare anche se bagnato.
selce e pirite ferrosa
Selce (scura) e pirite ferrosa (brillante, a destra) pronte a colpirsi

Ma come si crea la scintilla? Ad ogni percussione, dall’ acciarino metallico vengono erose piccole schegge che possono innescare una piccola e veloce combustione. Le scintille vengono quindi dall’acciarino, non dalla selce.

Quando la selce viene colpita dall’acciaio o dalla pirite ferrosa (che svolge il ruolo di acciarino per via del suo contenuto di ferro), la sua durezza fa in modo che si stacchino piccole particelle metalliche dalla superficie ruvida dell’acciarino.

La forza dell’impatto si rivela a volte sufficiente a scaldare i frammenti metallici al punto tale da “accenderli” non appena vengono a contatto con l’ossigeno atmosferico. Un acciarino realizzato con acciaio duro (ad alto contenuto di carbonio e temperato) produrrà scintille piccole e ad alta temperatura.

Tecnica per l’utilizzo dell’ acciarino metallico tradizionale

Per quanto l’acciarino si sia rivelato uno strumento utilissimo nell’arco dei secoli, una tecnica d’impiego non corretta o un’ esca non adatta possono comprometterne l’efficacia.

Gli acciarini antichi, contrariamente a quelli moderni in ferro-cerio o magnesio, non presentavano superfici uniformi in grado di “slittare” tra di loro in modo consistente e dovevano essere utilizzati in modo differente:

  • Un acciarino antico funziona tramite la percussione: acciarino e selce devono colpirsi per creare scintille. Una barra di ferro-cerio invece può essere semplicemente sfregata per ottenere lo stesso risultato;
  • Un’asta di ferro-cerio o magnesio produce scintille a temperature molto più alte di un acciarino in acciaio, elemento che costringe ad posizionare l’esca (le migliori sembrano essere il fungo dell’esca o tessuto carbonizzato) a contatto diretto con la selce;
  • Un acciarino moderno può essere utilizzato da chiunque anche senza alcuna conoscenza delle tecniche tradizionali di accensione del fuoco;
  • Un’asta di ferro-cerio è più fragile di un acciarino in acciaio. Tende a rompersi se colpisce violentemente una superficie dura e la lunghezza dell’asta è una caratteristica che permette di produrre scintille in modo consistente;
  • L’acciarino di ferro-cerio permette di regolare la pressione sulla barra e di conseguenza la quantità e la direzione delle scintille prodotte, controllo non sempre facile con i metodi a percussione.
Acciarino in acciaio e frammento di selce su cui è stato posizionato un pezzo di tessuto carbonizzato come esca per le scintille
Acciarino in acciaio e frammento di selce su cui è stato posizionato un pezzo di tessuto carbonizzato come esca per le scintille

Ci sono due metodi comuni per massimizzare il risultato di un acciarino antico: il primo è quello di posizionare l’esca per il fuoco sopra al pezzo di selce da colpire (tecnica di solito impiegata per gli acciarini tradizionali in acciaio), mentre il secondo vede l’esca posizionata a terra o sotto la selce, un procedimento ideale quando si utilizza la percussione tra pirite e selce.

L’elemento comune per entrambi i metodi di utilizzo è il seguente: a causa della bassa temperatura delle scintille prodotte da un acciarino tradizionale o dalla percussione tra pirite e selce, l’ esca deve trovarsi il più vicina possibile alla fonte delle scintille per poterne accogliere almeno una capace di innescare la combustione prima che questa si spenga completamente o sia troppo fredda per essere efficace.

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L’ acciarino moderno

Gli acciarini moderni, invece, non risentono delle problematiche di quelli tradizionali in acciaio o della combinazione pirite-selce. Anche se quelli al magnesio sono ora illegali in Italia, quelli al ferro-cerio si rivelano altrettanto efficaci e più sicuri.

Il ferro-cerio non è altro che una lega a base di ferro e cerio conosciuta per produrre schegge ad alta temperatura se sfregata da un oggetto metallico: la composizione metallica può variare molto, ma le barre di ferro-cerio più comuni sono composte dal 50% di cerio, 25% di lantanio, 19-20% di ferro e piccole quantità di altri metalli.

Le scintille prodotte da una barra di ferro-cerio possono raggiungere i 3.000°C, un calore sufficiente ad innescare la combustione con un’infinità di materiali.

L’utilizzo di un acciarino di ferro-cerio è semplice anche per chi non ha mai utilizzato uno strumento simile:

  • Si impugna con una mano la barra di ferro-cerio e con l’altra l’oggetto metallico che dovrà eroderla. Molti acciarini di questo tipo vengono venduti con una piccola placca metallica pronta all’uso, ma è possibile usare qualunque oggetto d’acciaio, compreso il dorso zigrinato di un coltello;
  • Si posiziona il “percussore” sull’asta di ferro-cerio con un’angolo di 90-120 gradi;
  • Si fa scivolare l’oggetto metallico lungo l’asta applicando una pressione sufficiente a creare scintille.
  • Una tecnica alternativa (e che di solito fornisce maggiore controllo sulla direzione e sulla qualità delle scintille prodotte) prevede che il percussore metallico resti fermo mentre la barra di ferro-cerio viene fatta scivolare verso l’alto.

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Viking Age Fire-Steels and Strike-A-Lights

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Bushido e samurai, mito e realtà https://www.vitantica.net/2017/12/06/bushido-samurai-mito-realta/ https://www.vitantica.net/2017/12/06/bushido-samurai-mito-realta/#comments Wed, 06 Dec 2017 12:00:35 +0000 https://www.vitantica.net/?p=973 Onestà e giustizia, coraggio, compassione, gentile cortesia, completa sincerità, onore, dovere e lealtà. Sette precetti fondamentali del Bushido (“la via del guerriero”) giapponese codificati in forma scritta circa 3 secoli fa e che sono stati raramente rispettati o messi in pratica nella quotidianità dei samurai, contrariamente a quanto la letteratura di genere presente e passata voglia farci credere.

La prima cosa da sottolineare è che il Bushido “etico” che conosciamo oggi è un concetto coniato in epoca relativamente recente e in un contesto del tutto estraneo alla guerra. La parola “bushido” è stata utilizzata per la prima volta nel XVII secolo ed divenne di uso comune solo nel 1899 grazie allo scrittore Nitobe Inazo, uno dei principali responsabili dell’immagine poetica e romanzata dei samurai che abbiamo oggi.

Lo shogunato Tokugawa, che contribuì ad una pace interna durata secoli (1603-1868), favorì la nascita di un codice etico di comportamento basato sulle antiche rappresentazioni degli ideali samurai per tenere a bada una schiera infinita di soldati rimasti senza una guerra da combattere (tra il 7% e il 10% della popolazione giapponese dell’epoca).

Anche se esistono alcuni esempi di condotta-modello per un samurai fin da prima del periodo Sengoku (XV secolo), si trattava principalmente di principi legati al rispetto e all’obbedienza assoluti verso i propri superiori; fu solo sotto i Tokugawa che si diffuse su larga scala l’idea di “guerriero gentile”, colto e rispettoso delle tradizioni marziali del passato.

Le prime versioni di un codice di condotta samurai sono frutto di storie basate su avvenimenti reali ma raccontate dagli occhi dei vincitori, come lo Heike Monogatari (1180 circa) che descrive l’epico scontro tra due clan rivali, i Minamoto e i Taira. I guerrieri di queste “cronache” furono altamente idealizzati e descritti come persone non solo militarmente potenti ma anche colte e dedite alle arti, personaggi-modello riutilizzati qualche secolo dopo per la codifica del Bushido nella sua versione moderna.

Paravento che raffigura una scena dell' Heike Monogatari
Paravento che raffigura una scena dell’ Heike Monogatari

La realtà quotidiana del samurai di basso rango era però ben diversa dalla linea di condotta di un guerriero colto e onorevole. In un periodo di pace prolungata e senza la possibilità di partecipare a scontri armati, i samurai senza padrone, senza un titolo nobiliare o senza discreti possedimenti di terra vagavano per il Giappone alla ricerca di un ingaggio come guardie del corpo o assassini, si organizzavano in bande di malviventi o semplicemente trascorrevano le loro giornate ad ingozzarsi di alcolici coi pochi soldi rimasti.

Di seguito riporto qualche aspetti e comportamenti meno noti dei samurai, alcuni in netto contrasto con il Bushido di epoca Tokugawa; altri invece sottolineano quanto la quotidianità di questi guerrieri fosse molto meno poetica e filosofica di quanto la letteratura e il cinema ci abbiano descritto finora.

I samurai erano essenzialmente pedofili

Nell’immaginario collettivo occidentale riteniamo che, nel momento del “riposo del guerriero”, un samurai si dedicasse ad ammirare la cerimonia del tè o a meditare nella sua stanza affilando la lama della spada e pensando a quanto fosse onorevole morire in battaglia. In realtà, la maggior parte dei samurai ammazzava il tempo in compagnia di ragazzini dodicenni.

Questo tipo di relazione era noto come shudo (“la via del giovane”) e fu in uso per molto tempo, fino al XIX secolo. Lo shudo deriva da una pratica del tutto identica in voga fin dal IX secolo tra monaci e accoliti, chiamata chigo.

Lo shudo e il chigo erano visti come una forma di apprendistato per i giovani, ufficialmente riconosciuto e socialmente accettato, oltre che incoraggiato, tant’è che prima di una battaglia era considerato preferibile fare sesso con un ragazzino o un compagno d’armi che con una donna.

Samurai e apprendista in un dipinto di Miyagawa Issho
Samurai e apprendista, Miyagawa Issho

I ragazzini in età wakashu (tra i 5-10 anni e i 18-20 anni) in pieno addestramento militare venivano affiancati da adulti esperti che potevano prendere come amante il loro protetto (con il consenso del ragazzo) fino al raggiungimento dell’età adulta.

Questo genere di rapporto veniva formalizzato come “contratto di fratellanza” ed era una relazione di tipo esclusivo in cui i due partecipanti erano tenuti al rispetto e alla fedeltà assoluta. Sia il samurai esperto che il giovane apprendista traevano onore dalla relazione e si veniva a creare un profondo legame che spesso proseguiva, dopo la fine del periodo wakashu, sotto forma di rapporto d’amicizia fraterna.

 

La fedeltà dei samurai è stata sopravvalutata

Il samurai è sempre stato visto come un guerriero dotato di fedeltà e lealtà incrollabili. Davanti al rischio di essere catturato, il Bushido ordinava di essere uccisi dal nemico o togliersi la vita piuttosto che coprire di vergogna il proprio nome e quello del proprio signore feudale.

Nella vita reale, la maggior parte dei samurai cambiava semplicemente fronte dello scontro nel caso si fosse dovuto arrendere al nemico, come è successo spesso e volentieri sui campi di battaglia di tutto il mondo nel corso della storia antica e moderna.

Durante il periodo Sengoku, uno dei più turbolenti dell’intera storia del Giappone, i potentati locali si scontravano tra loro di continuo ed era molto frequente che un samurai sconfitto cambiasse schieramento per allearsi con il vincente di turno.

I tradimenti erano all’ordine del giorno, gli intrighi fuori e dentro le corti erano costanti e spesso impossibili da portare a termine se non con l’aiuto della casta samurai, senza contare le innumerevoli battaglie vinte o perdute per colpa di samurai doppiogiochisti.

Incidente di Honno-ji, il celebre tradimento di Akechi Mitsuhide che costrinse Oda Nobunaga a suicidarsi
Incidente di Honno-ji, il celebre tradimento di Akechi Mitsuhide che costrinse Oda Nobunaga a suicidarsi

Il complesso sistema di doveri e obblighi nei confronti dei superiori, inoltre, non era privo di scappatoie e contraddizioni. La letteratura antica giapponese è piena di dilemmi come “Dovrei essere fedele al mio daimyo, che mi ha addestrato e cresciuto, o allo shogun, suo superiore e quindi meritevole di maggiore fedeltà?”.

I samurai vissuti prima dell’epoca Tokugawa non trascorrevano il loro tempo a discutere di Bushido etico o a valutare la cosa più giusta o saggia da fare. Le azioni disonorevoli, come sterminare un’intera famiglia, uccidere donne e bambini o riscuotere tasse ingiuste con la forza non solo erano richieste frequenti da parte dei loro superiori, ma venivano spesso ricompensate in riso o con un avanzamento di carriera.

 

I samurai hanno smesso di esistere perchè inutili

L’introduzione delle tecnologie belliche occidentali in Giappone cambiò radicalmente lo stile di combattimento tradizionale basato su scontri di arcieri e spadaccini; i samurai tuttavia non svanirono solo per l’arrivo in Giappone della tecnologia delle armi da fuoco, ma per i sempre più prolungati periodi di pace e di unità interna degli ultimi secoli di storia.

Cosa fa un guerriero di professione se non c’è una guerra da combattere? Se è costretto a portare a casa la pagnotta, torna a fare il contadino, si improvvisa brigante o si dedica al commercio.

Il periodo della Rinnovamento Meiji (tra il 1866 e il 1869) rappresentò una catastrofe per la casta dei samurai, considerata una vera e propria reliquia di un passato ormai diventato fonte di vergogna per un Giappone che aveva appena compreso la superiorità tecnologica dell’Occidente industrializzato e si stava aprendo commercialmente al mondo.

Ai samurai furono rimossi i privilegi goduti in precedenza e il Giappone iniziò un’opera di modernizzazione del Paese, a partire dall’abolizione di molte antiche tradizioni. Messi di fronte alla superiorità militare del resto del mondo, i samurai non avrebbero potuto difendere l’Imperatore da un ipotetico attacco straniero e finirono per assistere allo smembramento totale della loro casta da parte dei governanti che avevano protetto fino al giorno prima.

La battaglia di Ueno fu combattura a Tokyo nel 1868. La sconfitta dei samurai dello shogun segnò l'inizio del Rinnovamento Meiji.
La battaglia di Ueno fu combattura a Tokyo nel 1868. La sconfitta dei samurai dello shogun segnò l’inizio del Rinnovamento Meiji.

I figli dei samurai di alto rango, inoltre, erano il bersaglio perfetto per i missionari cristiani: appartenevano alle classi più influenti della società, dotate di maggior tempo libero per poter ascoltare la parola di Dio. La conversione al cristianesimo dei figli dei samurai fu un vero colpo per la casta: la filosofia cristiana è in netto contrasto con il codice del Bushido antico e moderno e inconciliabile con la vita del samurai.

I samurai adulti furono costretti ad adattarsi: alcuni diventarono guardie del corpo, altri affittarono per denaro la propria capacità di usare la spada o si affiliarono alla Yakuza; altri ancora decisero di vendere la propria “anima”, la spada, per avere qualche soldo utile a reinventarsi come mercanti o contadini.

 

I samurai non erano tutti ricchi

I samurai furono di certo un gruppo decisamente potente nella piramide sociale del Giappone feudale precedente alla Restorazione Meiji, ma si trattava di un insieme di persone molto eterogeneo: c’era chi veniva da una famiglia nobile vicina alle corti imperiali e chi invece possedeva un piccolo fazzoletto di terra all’angolo opposto della capitale. E tra questi c’era anche chi possedeva soltanto una capanna in cui riposava in attesa di essere convocato in battaglia.

Il primo censimento di samurai tenuto in Giappone alla fine del XIX secolo mise in evidenza che la casta dei samurai occupava una fetta pari al 10% della popolazione del tempo, che contava circa 25 milioni di anime.

1,2 milioni di questi guerrieri erano samurai di rango medio-alto, ai quali era consentito possedere una cavalcatura (e potevano permettersela economicamente); i rimanenti erano samurai di basso rango che spesso nemmeno potevano permettersi l’affitto di un cavallo da soma.

 

Samurai stranieri
William Adams
William Adams

Nell’arco della storia giapponese furono diversi gli stranieri che si meritarono il titolo di samurai. Yasuke, di origine africane, giunse in Giappone nel 1579 al servizio di un italiano, Alessandro Valignano; Oda Nobunaga, riconoscendone l’intelligenza e la forza fisica, lo ingaggiò donandogli una katana, una delle sue residenze e garantendogli un salario a vita.

Due anni dopo, Nobunaga e Yasuke trovarono la morte nell’ Incidente di Honno-ji, uno dei casi più celebri di tradimento da parte di un samurai.

La casta samurai ha concesso il titolo a un africano, un inglese (William Adams), un olandese (Jan Joosten van Lodensteijn) e centinaia di coreani prigionieri o collaborazionisti durante l’ Invasione della Corea del 1592–98.

 

Onore e compassione…?

La guerra è guerra, anche per i samurai. L’onore e la compassione hanno di solito ben poco spazio sul campo di battaglia, specialmente se il nemico ha ucciso i membri del tuo clan o è stato dipinto come l’incarnazione del male assoluto.

In alcuni casi tuttavia la crudeltà in guerra raggiunse livelli estremi o ingiustificabili, ma giustificabili in qualche modo dalle mentalità giapponese del tempo, come testimonia la storia di Date Masamune.

Masamune (5 settembre 1567 – 27 giugno 1636) era il primogenito del clan Date e il diretto successore al ruolo di capo-clan, ma dopo aver contratto il vaiolo e aver perso l’occhio destro fu giudicato dalla madre indegno di prendere il posto del padre. Dopo aver acquisito esperienza sui campi di battaglia (e aver accumulato qualche sconfitta), iniziò una campagna di conquista dei territori vicini a quelli del suo clan.

I feudi confinanti decisero quindi di rapire Terumune, padre di Masamune, senza tuttavia valutare con attenzione l’entità della vendetta che avrebbero scatenato. Terumune ordinò al figlio di sterminare tutti i clan rivali, anche se questo gli fosse costata la vita; il figlio eseguì alla lettera l’ordine, uccidendo ogni singolo rapitore per poi procedere a torturare sistematicamente ogni membro delle famiglie dei clan nemici, donne e bambini inclusi.

Samurai teste

Si tratta di un caso isolato di crudeltà? Non esattamente. Quando uno schieramento si aggiudicava la vittoria, gli antichi samurai erano soliti recidere le teste per ottenere ricompense, specialmente se le teste appartenevano a membri nemici di alto rango. Il problema del “conto delle teste” diventò in alcuni casi così grave che alcuni signori feudali vietarono ai propri eserciti di collezionare teste durante la battaglia.

Per non parlare del kiri-sute gomen, letteralmente “autorizzazione a tagliare e abbandonare il corpo della vittima“. In epoca feudale, ogni samurai aveva il diritto di uccidere sul posto chiunque avesse osato infangare il suo onore, a patto che la vittima appartenesse ad una classe sociale inferiore e che l’omicidio fosse commesso subito dopo l’offesa. Per equilibrare lo scontro, chi aveva lanciato l’offesa poteva difendersi usando soltanto la spada corta (wakizashi).

 

I samurai non erano così determinanti in battaglia

Ashigaru

Mai sentito parlare degli ashigaru (“piedi leggeri”)? Erano fanti inizialmente reclutati tra la popolazione civile che componevano le schiere di qualunque esercito giapponese. Il Giappone feudale aveva principalmente tre tipi di guerrieri: samurai, ji-samurai (samurai part-time) e ashigaru: i samurai di basso rango si univano generalmente agli ashigaru non perché fosse poco onorevole, ma perché la superiorità numerica, l’addestramento e il controllo delle schiere di fanti erano i veri elementi determinanti sul campo di battaglia.

Gli ashigaru erano armati di naginata, yumi e spade e talvolta potevano permettersi armature pesanti con innesti di ferro ed elmi kabuto. Gli ashigaru furono i primi soldati giapponesi ad utilizzare i Tanegashima, archibugi di origine portoghese introdotti in Giappone nel 1543 che rivoluzionarono completamente le battaglie campali tradizionali, ma che in seguito vennero relegati al ruolo di semplici armi da caccia dei samurai a causa la scarsità di fabbri in grado di manutenerli.

 

Il suicidio rituale era poco pratico o proibito

seppuku e junshi

Intorno alla metà del XVII° secolo iniziò a dilagare tra i samurai una pratica definita junshi: per dimostrare l’estrema lealtà al proprio signore feudale appena defunto, i samurai al suo servizio commettevano seppuku (suicidio rituale) in massa per seguire il daimyo nell’oltretomba.

Quando nel 1651 morì lo shogun Tokugawa Iemitsu, ad esempio, ben 13 dei suoi consiglieri più vicini si tolsero la vita cambiando totalmente l’equilibrio del potere nel Consiglio di corte. Lo stesso capitò alla morte di Date Masamune nel 1636: ben 15 samurai, tra i quali sei vassalli locali, decisero di commettere suicidio. Il risultato di questi e molti altri episodi di junshi costrinsero molti daimyo a rendere illegale la pratica per evitare che i feudi si indebolissero alla morte del signore feudale o che finissero nelle mani sbagliate.

Occorre considerare anche la praticità del suicidio rituale nella realtà di un Paese in piena guerra civile: se tutti i samurai sconfitti durante l’epoca Sengoku fossero stati costretti a suicidarsi, nessun clan o feudo avrebbe potuto sopportare anche soltanto una piccola rivolta contadina. Era molto più pratico e comodo ingaggiare i soldati nemici offrendo loro una paga migliore o semplicemente la loro vita in cambio dell’arruolamento.

 

10 Ways Samurai Were Nothing Like You Thought

BUSHIDO: WAY OF TOTAL BULLSHIT

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Il carbone vegetale (o carbone di legna) https://www.vitantica.net/2017/11/11/carbone-vegetale-di-legna/ https://www.vitantica.net/2017/11/11/carbone-vegetale-di-legna/#comments Sat, 11 Nov 2017 15:00:09 +0000 https://www.vitantica.net/?p=792 Il carbone di legna è un tipo di carbone prodotto a partire da materia vegetale che subisce un lento processo di pirolisi: la legna, sottoposta a temperature di 200-300°C in presenza di scarso o zero ossigeno, perde la sua umidità e si carbonizza, evitando di bruciare completamente e assumendo le proprietà che rendono il carbone così speciale.

Origine del carbone di legna

L’origine del carbone di legna è probabilmente collegata ai primi impieghi complessi del fuoco: sappiamo ad esempio che molti tatuaggi o pitture rupestri utilizzavano il carbone vegetale come pigmento per il colore nero.

La rivoluzione dell’ Età del Ferro non sarebbe stata possibile senza l’utilizzo del carbone di legna, che brucia a temperature più alte del legno.

Il carbone ha anche trovato impiego nella medicina tradizionale come rimedio all’avvelenamento per ingestione, dato che si lega alle tossine impedendo il loro assorbimento da parte del tratto gastrointestinale.

E’ possibile che il carbone di legna sia stato “inventato” dai primi produttori di catrame di betulla: il processo di pirolisi che porta all’estrazione del catrame genera come sottoprodotto un mucchio di legna carbonizzata dalle proprietà molto simili al carbone vegetale prodotto secondo il metodo tradizionale.

Carbonaia primitiva a terra
Carbonaia primitiva a terra
La carbonaia

Il metodo tradizionale per produrre carbone di legna è quello della carbonaia, un cumulo di legna e terra che, se correttamente supervisionato e manutenuto, mantiene una combustione controllata per diversi giorni.

Sul terreno viene inizialmente piantato un palo alto circa 3 metri attorno al quale si accatastano pezzi di legna di dimensione crescente man mano che ci si allontana dal palo, inizialmente disposti orizzontalmente e sovrapposti e, in seguito, disposti verticalmente. Lo scopo è quello di ottenere una catasta a forma di cono alta circa due metri e dal diametro di 5-6.

Attorno alla catasta si posiziona quindi una siepe di rami per favorire la circolazione dell’aria all’interno della carbonaia. Il tutto viene poi ricoperto con uno strato di fogliame spesso una decina di centimetri e uno di terra altrettanto profondo, sigillando quasi completamente il mucchio di legna per impedire che entri in contatto con una quantità eccessiva di ossigeno.

Lungo il perimetro inferiore della carbonaia vengono generalmente praticati alcuni fori la cui apertura e chiusura consentirà di controllare il flusso d’aria in ingresso.

Carbonaia e carbone
Carbonaia in fase di costruzione

Una volta terminata la costruzione della carbonaia, si rimuove il palo centrale creando un camino in cui saranno inserire braci ardenti con un’esca sufficiente ad innescare la combustione della legna; il camino viene quindi chiuso parzialmente inserendo altra legna, foglie e terriccio per far uscire il fumo molto lentamente dalla struttura.

Il processo di carbonizzazione

La produzione di carbone vegetale con le antiche carbonaie era un processo lungo che normalmente richiedeva 6-10 giorni per essere completato (diverse settimane se la carbonaia aveva dimensioni superiori a quelle indicate sopra) e necessitava di un monitoraggio costante dello stato di carbonizzazione del legname.

In condizioni ideali, a partire da 4 tonnellate di legname si potevano ottenere da 600 a 800 kg di carbone di legna, ma il procedimento era suscettibile a numerosi fattori che potevano compromettere la quantità e la qualità di carbone ottenuta.

In molte culture del mondo, questo lavoro delicato era lasciato nelle mani esperte di professionisti del settore, che spesso vivevano isolati dal resto della comunità in apposite capanne (chiamate Köhlerhütte o Köte in Germania, Austria e Svizzera) per controllare costantemente lo stato di lavorazione del carbone che producevano.

Il controllo della carbonizzazione richiedeva l’aggiustamento delle temperature di funzionamento della carbonaia in un periodo in cui i termometri erano del tutto assenti: carbonizzando ad una temperatura di 250-300 °C, infatti, il carbone diventa marrone e prende fuoco facilmente a circa 380 °C; se fatto carbonizzare ad oltre 310 °C, invece, la temperatura di accensione aumenta fino a raggiungere i 700°C.

I carbonai regolavano la temperatura della carbonaia osservando la quantità e la qualità del fumo che fuoriusciva dalla ciminiera: se il fumo era denso e grigio, il legname della carbonaia era ancora troppo umido; un fumo rado e azzurrino, quasi trasparente, indicava invece un ottimo stato di carbonizzazione.

Fase finale della produzione di carbone al festival di Kohlenmeiler a Dachsber, Germania
Fase finale della produzione di carbone al festival di Kohlenmeiler a Dachsber, Germania

Dopo diversi giorni di carbonizzazione, la carbonaia assumeva un colore molto scuro e il suo volume si riduceva notevolmente a causa della riduzione in volume del legname al suo interno.

Per evitare la formazione di vuoti d’aria capaci di “risucchiare” ossigeno dall’esterno rischiando di incenerire il legname, i carbonai battevano regolarmente con un bastone l’involucro esterno della carbonaia.

Una volta cotto a puntino, il carbone veniva estratto dalla carbonaia (distruggendola a colpi di vanga o bastoni da scavo) e lasciato raffreddare per un paio di giorni sotto uno strato di terra. Il suono che produceva se colpito da una pietra o da un pezzo di metallo indicava al carbonaio la qualità dello stock di carbone prodotto.

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Utilizzo del carbone di legna

Oltre al classici utilizzi (calore e cottura di cibo), oggi come in antichità il carbone di legna era il combustibile preferito per la lavorazione tradizionale del ferro, del vetro e dei metalli preziosi.

Il carbone di legna brucia a temperature elevate, raggiungendo i 2700 °C nelle giuste condizioni. Per via della sua porosità è sensibile al flusso d’aria che lo colpisce e il calore generato può essere regolato controllando la quantità d’aria che raggiunge le braci.

Nell’antichità non era raro che intere foreste venissero devastate per produrre carbone da utilizzare per la produzione di ferro e acciaio: nel XVI secolo, in Inghilterra entrò in vigore una legge che limitava l’abbattimento di alberi per la produzione di carbone allo scopo di evitare che l’intera isola fosse denudata dai boschi che la ricoprivano in tempi più remoti.

Il carbone di legna era anche uno dei tre ingredienti di base utilizzati per la produzione di polvere nera, un mix di carbone vegetale, zolfo e nitrato di potassio all’origine di tutte le armi da fuoco antiche e moderne.

Un altro impiego del carbone di legna, osservato anche nel regno animale, è quello di miscela disintossicante: la porosità del carbone di legna intrappola alcune delle tossine presenti nel tratto gastrointestinale (o nell’ acqua) limitando gli effetti nocivi di molti veleni conosciuti.

Questo metodo di disintossicazione è utilizzato anche dai colobi rossi (Piliocolobus badius), piccole scimmie africane la cui dieta è composta principalmente da foglie contenenti cianuro; queste scimmie ingeriscono regolarmente frammenti di carbone di legna naturale o argilla per limitare gli effetti della tossina.

Utilizzando legno particolarmente denso, come quello dei gusci di noce o dei noccioli di pesca, era possibile produrre ciò che oggi viene definito carbone attivo: la struttura vascolare dei legni densi, svuotata dai gas emessi durante la pirolisi, crea una sorta di spugna fornita di un’infinità di minuscoli pori che migliorano l’azione disintossicante del carbone.

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