mediterraneo – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 La trireme greca https://www.vitantica.net/2018/06/12/trireme-greca/ https://www.vitantica.net/2018/06/12/trireme-greca/#respond Tue, 12 Jun 2018 02:00:58 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1754 La trireme greca fu l’ imbarcazione simbolo di un’epoca e uno strumento fondamentale per la vittoria greca sull’invasore persiano: relativamente solida, veloce, facilmente manovrabile in piccoli spazi e dotata di propulsione a vela o a remi, la trireme fu una nave che tra il VII e il IV secolo a.C. dominò il Mediterraneo sostituendo le più pesanti e lente quadriremi.

L’origine della trireme

Il nome trireme deriva dalle tre file di remi sovrapposte utilizzate come principale sistema di propulsione. Questa nave fu il frutto dei miglioramenti apportati su altre imbarcazioni come il pentecontoro (nave a 50 remi distribuiti su una sola fila per lato) o il bireme, dotato di due sole file di rematori ad ogni lato dello scafo e originariamente ideato dagli abili navigatori fenici.

L’ origine delle triremi si fa risalire alla fine dell’ VIII secolo a.C.: frammenti di rilievi scoperti a Ninive sembrano raffigurare le flotte di Tiro e Sidone composte da navi dotate di tre file di remi e di rostri da sfondamento sulla prua.

Gli storici moderni sono divisi sulla vera origine della trireme, come lo erano anche gli autori antichi: secondo Clemente Alessandrino, autore del II secolo d.C., l’invenzione della trireme è da attribuire a Sidone, mentre Tucidide sostiene che le triremi fossero state introdotte in Grecia dai Corinzi intorno alla fine dell’ VIII secolo a.C.

Modellino di trireme greca alDeutsches Museum, Monaco.
Modellino di trireme greca alDeutsches Museum, Monaco.

La prima testimonianza scritta dell’ utilizzo della trireme come nave da guerra risale al 525 a.C.: secondo Erodoto, il tiranno di Samo Policrate aiutò la flotta egiziana, minacciata dall’avanzata persiana, fornendo 40 triremi. La prima battaglia navale di triremi su larga scala fu invece la battaglia di Lade del 494 a.C.: Ioni e Persiani (i primi con una flotta di 353 triremi) si scontrarono al largo di Mileto durante il periodo definito “rivolta ionica”.

Lo scenario di guerra che vide come protagoniste le triremi greche fu la sequenza di battaglie definita come “Guerre Persiane”. Intorno al 483 a.C. l’ateniese Temistocle ordinò la costruzione di 200 triremi in previsione dell’invasione persiana, navi che non solo avrebbero contribuito ad arrestare l’avanzata nemica nel Peloponneso, ma che giocarono anche un ruolo fondamentale per il dominio marittimo dell’ Egeo negli anni successivi alla guerra.

Una nave dalle prestazioni straordinarie

Il successo della trireme è dovuto al fatto che si trattava di un’imbarcazione “top di gamma” per il suo tempo. La trireme era un perfetto e delicato mix di dimensioni, propulsione, stazza, centro di gravità e resistenza; la disposizione dei rematori, inoltre, consentiva di risparmiare spazio, di ottenere velocità incredibili e di avere un centro di gravità molto basso, elemento fondamentale per la stabilità della nave.

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La trireme disponeva di un solo albero dotato di vela rettangolare o triangolare che veniva ammainata prima della battaglia. Lo scafo era lungo tra i 36 e i 41 metri, largo 3-4 metri, aveva un pescaggio (la parte immersa dello scafo) di circa 1 metro e poteva pesare fino a 90 tonnellate.

Sulla prua la trireme aveva generalmente un rostro, un grosso sperone ricoperto di bronzo lungo due metri (a volte dotato di lame) che veniva utilizzato come ariete di sfondamento contro le navi avversarie.

L’equilibrio tra agilità e velocità delle triremi era tale che deviare dalle tradizionali tecniche costruttive avrebbe compromesso l’integrità stessa dell’imbarcazione. La velocità, ad esempio, poteva essere penalizzata anche dall’alleggerimento dello scafo, non solo dal trasporto di pesi eccessivi.

Se il centro di gravità fosse stato più alto avrebbe compromesso la stabilità dell’imbarcazione nei confronti delle onde; più basso, invece, avrebbe costretto i costruttori ad utilizzare ulteriori travi di supporto, occupando spazio prezioso ed impedendo di ospitare la fila di rematori più bassa.

Disposizione dei rematori sulla trireme
Disposizione dei rematori sulla trireme

La grossa innovazione delle trireme fu l’introduzione di due hypozomata, grosse funi che correvano da prua a poppa: contribuivano a mantenere stabile la struttura dello scafo ponendo le assi che lo componevano sotto costante pressione. Gli hypozomata erano considerati un segreto di stato e ogni tentativo di esportare questa tecnologia fuori da Atene comportava la pena capitale.

La complessità di una trireme richiedeva una manutenzione continua dello scavo, delle vele, dei remi e del sartiame. Lo scafo non era totalmente impermeabilizzato e una lunga permanenza in mare poteva causare allagamenti, problema che veniva evitato trascinando a riva l’imbarcazione durante la notte. Una trireme ben curata poteva sopravvivere fino a 25 anni, a patto di non subire troppi danni durante le battaglie o i viaggi in mare.

L’equipaggio della trireme

La trireme greca aveva un equipaggio composto da circa 200 uomini, dei quali 170 rematori, una decina di marinai addetti alle vele, una dozzina di guerrieri e cinque ufficiali. I rematori, benché provenissero dai ceti più poveri, subivano un duro addestramento prima di assumere il loro posto sulla nave; venivano anche impiegati come “fanteria povera” (erano completamente nudi) e frombolieri durante la battaglia.

Durante i viaggi di media-lunga durata, i rematori operavano per 6-8 ore dandosi il turno (metà equipaggio riposava mentre il resto remava) e potevano coprire distanze di 80-100 km mantenendo una velocità di crociera stabile.

HS Olympias, una riproduzione della trireme greca costruita nel 1987 per conto della Marina greca.
HS Olympias, una riproduzione della trireme greca costruita nel 1987 per conto della Marina greca.
Vantaggi e debolezze della trireme

I punti di forza della trireme contribuivano alle sue debolezze. Sacrificare la resistenza per la velocità e la manovrabilità non consentiva di navigare agevolmente in mare aperto o mosso, e lo spazio nella stiva era così ridotto da non permettere lunghi viaggi a causa dell’impossibilità di trasportare provviste a sufficienza.

Ma la velocità e la manovrabilità raggiungibili da una trireme greca la rendevano perfetta per l’utilizzo in battaglie veloci e in spazi ristretti. Le fonti classiche sostengono che una trireme potesse mantenere la velocità di 6 nodi (11 km/h) senza troppi sforzi.

Senofonte riporta di un viaggio sul Mediterraneo che avrebbe richiesto una velocità di 7,37 nodi (circa 13 km/h) per essere portato a termine in un singolo giorno, come sostiene l’autore. Queste prestazioni sembrano essere supportate da alcune riproduzioni moderne dell’imbarcazione greca, che hanno raggiunto una velocità massima di 8 nodi (15 km/h).

The 18th Jenkin Lecture, 1 October 2005: Some Engineering Concepts applied to Ancient Greek Trireme Warships
Trireme

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Quanto tempo occorreva per attraversare il Mediterraneo su un’antica nave a vela? https://www.vitantica.net/2018/04/20/tempo-attraversare-mediterraneo-antica-nave-vela/ https://www.vitantica.net/2018/04/20/tempo-attraversare-mediterraneo-antica-nave-vela/#comments Fri, 20 Apr 2018 02:00:29 +0000 https://www.vitantica.net/?p=1631 Trasportare merci e persone da una costa all’altra del mondo conosciuto non era affatto semplice in passato: il mezzo di trasporto più efficiente era la nave a vela, ma i viaggi per mare erano tutt’altro agevoli o di breve durata, anche quando si navigava in una distesa d’acqua circoscritta come il Mediterraneo.

Le variabili degli spostamenti via mare

Calcolare i tempi di percorrenza di un’ imbarcazione antica non è un’impresa facile. Il mare non è una superficie piana o regolare, le condizioni atmosferiche e i venti svolgono un ruolo di primaria importanza nella velocità e nella manovrabilità di una nave: percorrere 100 chilometri nel mare in burrasca o con il vento contrario richiede molto più tempo rispetto a coprire la stessa distanza avendo il vento a favore o il mare calmo.

Occorre inoltre tenere in considerazione il carico: alcuni tipi di nave impiegati nell’antica Grecia potevano trasportare fino a 500 tonnellate di merce e risultavano inevitabilmente più lenti e meno manovrabili di natante dalla stazza inferiore. Il carico costringeva anche ad effettuare soste più o meno frequenti nei porti commerciali dislocati lungo la rotta verso la destinazione designata.

Una nave tende ad avere prestazioni migliori se viene sospinta da un vento di poppa: in questo caso può puntare la prua verso la propria destinazione e muoversi velocemente seguendo una rotta sostanzialmente rettilinea.

Quando invece i venti sono contrari, la navigazione diventa più lenta e difficoltosa per la necessità di sfruttare venti che provengono da direzioni differenti: le vele devono essere costantemente ritirate o spiegate, la nave deve viaggiare a zig-zag e viene facilmente investita trasversalmente dai fiotti marini, che spruzzano acqua sul ponte superiore e fanno accumulare acqua nella sentina (la parte più bassa dell’imbarcazione in cui tendono ad accumularsi i liquidi che si infiltrano nello scafo).

Raffigurazione di una nave romana del III secolo. La capacità di carico era di circa 86 tonnellate ed era lunga 25 metri
Raffigurazione di una nave romana del III secolo. La capacità di carico era di circa 86 tonnellate ed era lunga 25 metri
Tempi di viaggio sul Mediterraneo

Per calcolare dei tempi medi di percorrenza di una nave a vela antica, quindi, è necessario basare le proprie valutazioni sia sui viaggi compiuti con venti favorevoli, sia sulle traversate che hanno incontrato condizioni di navigazione poco vantaggiose.

Fortunatamente, molti capitani di vascello erano soliti tenere un diario giornaliero sulle condizioni di viaggio e la rotta seguita, mentre diversi documenti storici riportano informazioni sulle antiche modalità di viaggio, permettendoci di estrapolare dati utili per capire quanto tempo occorresse per attraversare il Mediterraneo o mari più vasti.

Plinio il Vecchio fu uno dei primi a menzionare alcune traversate marine compiute in tempi da record con venti favorevoli e condizioni di navigazione ottimali.

  • Da Ostia alle coste africane: 270 miglia marine (500 km) percorse in 2 giorni alla velocità di 6 nodi (un nodo corrisponde a 1,852 km/h);
  • Da Ostia a Gibilterra: 935 miglia marine (1.730 km) percorse in 7 giorni alla velocità di 5,6 nodi;
  • Da Messina ad Alessandria d’Egitto: 830 miglia marine (1.537 km) percorse in 6-7 giorni alla velocità di 5,8 nodi;
  • Da Pozzuoli ad Alessandria d’Egitto: 1000 miglia marine (1.852 km) percorse in 9 giorni alla velocità di 4,6 nodi;

Nelle migliori condizioni era quindi possibile percorrere 200-250 km al giorno e i dati riportati da Plinio sono in linea con le informazioni fornite da altri autori come Filostrato (Corinto-Pozzuoli in 4 giorni), Tucidide, Sinesio di Cirene e Senofonte (secondo il quale una nave pirata percorse 400 miglia nautiche da Rodi e Efeso in 4 giorni).

Nel caso di rotte che prevedevano tratti di navigazione costiera i tempi erano più lunghi: la necessità di seguire il profilo costiero era un fattore limitante per la velocità di viaggio.

Il viaggio da Bisanzio a Rodi richiedeva mediamente 9-10 giorni per percorrere circa 880 miglia nautiche, con una velocità media inferiore ai 4 nodi: la necessità di navigare lungo la costa impediva di raggiungere la velocità di punta prima di essere entrati nel mare aperto a sud dell’isola.

Raffigurazione di una nave dell'antico Egitto nella tomba di Menna, scriba sotto la XVIII dinastia
Raffigurazione di una nave dell’antico Egitto nella tomba di Menna, scriba sotto la XVIII dinastia
Viaggio via mare in condizioni sfavorevoli

Con condizioni atmosferiche e rotte sfavorevoli, i tempi di percorrenza cambiavano sensibilmente:

  • Da Rodi a Gaza: 410 miglia marine (759 km) in 7 giorni alla velocità di 2,6 nodi
  • Da Alessandria d’Egitto a Marsiglia: 1800 miglia (3.333 km) in 30 giorni alla velocità di 2,5 nodi
  • Da Gaza a Bisanzio: 1000 miglia (1.852 km) in 20 giorni alla velocità di 2 nodi
  • Da Alessandria d’Egitto a Cipro: 250 miglia (463 km) in oltre 6 giorni alla velocità di 1,8 nodi
  • Da Bisanzio a Rodi: 445 miglia (824 km) in 10 giorni alla velocità di 1,8 nodi
  • Da Pozzuoli a Ostia: 120 miglia (222 km) in 3 giorni alla velocità di 1,8 nodi

I tempi di percorrenza dilatati non sono dovuti esclusivamente alla presenza di venti contrati o di un mare agitato. La navigazione costiera richiesta in molte rotte commerciali prevedeva la sosta in porto durante la notte, mentre solo i vascelli che navigavano in mare aperto tendevano a limitare gli approdi ai porti principali, continuando a solcare il mare durante tutto l’arco della giornata.

Combinando i dati sui tempi di viaggio, è possibile dedurre la lunghezza del viaggio tra le rotte commerciali più trafficate dell’antichità:

  • Da Alessandria d’Egitto a Bizanzio: passando da Rodi, circa 17-20 giorni di viaggio
  • Da Alessandria d’Egitto a Napoli: passando da Cipro, Rodi, Creta, Malta, Siracusa e Messina, circa 50-70 giorni di viaggio
  • Da Alessandria d’Egitto a Rodi: circa 7-10 giorni di viaggio
  • Da Alessandria d’Egitto a Roma: circa 10-13 giorni di viaggio
  • Da Cartagine a Roma: circa 2-4 giorni di viaggio
  • Da Gibilterra a Roma: 7-10 giorni di viaggio
  • Da Marsiglia ad Alessandria d’Egitto: 20-30 giorni
  • Da Napoli a Roma: circa 3 giorni di viaggio
Foto della zattera Kon-Tiki e del suo equipaggio durante il viaggio nel Pacifico del 1947
Foto della zattera Kon-Tiki e del suo equipaggio durante il viaggio nel Pacifico del 1947
Tempi di viaggio sull’oceano

Il viaggio oceanico prevedeva invece tempi di percorrenza calcolati in settimane o in mesi, non in giorni. Grazie ai diari di navigazione di esploratori come Colombo, Diaz e alcuni esempi di archeologia sperimentale possiamo calcolare quanto tempo richiedeva un viaggio in barca a vela attraverso l’Oceano Atlantico o il Pacifico.

  • Spedizione “Kon-Tiki”: spedizione effettuata nel 1947 dal norvegese Thor Heyerdahl allo scopo di fornire uno scenario realistico della colonizzazione delle isole polinesiane da parte delle etnie asiatiche. Il viaggio durò 101 giorni e la zattera di Heyerdahl percorse un totale di 4.300 miglia nautiche fino alle Isole Tuamota;
  • Primo viaggio di Colombo: il primo viaggio di Cristoforo Colombo attraverso l’Atlantico durò circa 9 settimane, dal 3 agosto 1492 al 12 ottobre dello stesso anno, giorno in cui sbarcò nelle Bahamas;
  • Viaggio di San Brandano (1976-1977): nella metà degli anni ’70 del 1900 Tim Severin e il suo equipaggio crearono una replica dell’imbarcazione che San Brandano avrebbe utilizzato per raggiungere le coste americane. Il viaggio durò circa 13 mesi per un totale di 4.500 miglia nautiche (7.200 km), partendo dall’Irlanda e toccando le Ebridi e l’Islanda.

SPEED UNDER SAIL OF ANCIENT SHIPS – NEW YORK UNIVERSITY
History of Ships
Tim Severin

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Nave romana con vasca per pesci https://www.vitantica.net/2017/10/27/nave-romana-con-vasca-per-pesci/ https://www.vitantica.net/2017/10/27/nave-romana-con-vasca-per-pesci/#comments Fri, 27 Oct 2017 02:00:54 +0000 https://www.vitantica.net/?p=707 Un’ ipotesi molto interessante è stata formulata nel 2011 dagli archeologi dell’ Università Ca’ Foscari di Venezia e pubblicata sulla rivista on-line International Journal of Nautical Archaeology: un tubo di piombo ritrovato nel relitto di un’ antica nave romana apparterrebbe ad un sistema di pompaggio utilizzato sulle navi di 2.000 anni fa per mantenere il pesce fresco e vivo fino al porto più vicino.

Si è sempre ritenuto che il consumo di pesce nell’antichità dovesse avvenire a poca distanza dai porti per ovvie ragioni logistiche: è difficile trasportare il pesce su lunghe distanze (e con carri trainati da buoi) mantenendolo fresco: senza alcun refrigeratore, il pesce ha poche ore di vita prima di iniziare a marcire. Nel corso della storia umana sono nati molti metodi per preservare il cibo, come la salatura, ma niente può sostituire il sapore del pesce fresco di giornata.

Ma la teoria elaborata dall’ archeologo marino Carlo Beltrame sostiene che i Romani potessero servirsi di vasche d’ acqua salata a bordo della navi da pesca per conservare vivo il pesce durante il trasporto lungo il Mediterraneo.

Il relitto in cui è stato scoperto il tubo di piombo appartiene ad una nave romana affondata attorno al II secolo d.C. a 10 chilometri dalla costa di Grado, nel Golfo di Trieste. E’ stata scoperta nel 1986, recuperata tra il 1999 e il 2000 ed è ora custodita al Museo di Archeologia Subacquea di Grado. Le nave è lunga 16,5 metri e trasportava contenitori simili a vasi pieni di pesce sotto sale, come sardine e sgombri sotto sale.

Al momento della scoperta del tubo, che penetrava all’interno dello scafo per una lunghezza di circa 1,3 metri e con un diametro di 7-10 centimetri, gli archeologi sono rimasti spiazzati dal trovare un oggetto così insolito a bordo di una nave. A cosa serviva un tubo di piombo a bordo di un peschereccio?

Tubo di piombo ritrovato nel relitto
Tubo di piombo ritrovato nel relitto

Il team di Beltrame sostiene che il tubo fosse collegato ad una pompa a pistone azionata da una leva, anche se la pompa non è ancora stata rinvenuta nei pressi del relitto. I Romani avevano accesso a questo genere di tecnologia, ma non risulta che questo particolare tipo di pompe venisse montato anche sulle navi da pesca del tempo.

Il passo successivo è stato quello di formulare ipotesi sulla possibile funzione di questa pompa: serviva per liberarsi dell’acqua di sentina sul fondo della nave, o per altri scopi?

Beltrame sostiene che le pompe di sentina erano più sicure e comuni del tipo di pompa che si ipotizza possa essere stato utilizzato a bordo della nave. “Nessun marinaio avrebbe bucato la chiglia creando un’altra strada di accesso allo scafo per l’acqua di mare” dice Beltrame.

La seconda alternativa è che questa pompa, invece, servisse a portare acqua sulla nave per combattere incendi e per la pulizia dei ponti, un sistema relativamente comune sulle imbarcazioni che hanno solcato il Mediterraneo. Ma per Beltrame le dimensioni ipotetiche della pompa non erano tali da servire allo scopo.

Quello che rimane, quindi, è una terza possibile funzione: immettere acqua in vasche per i pesci. I ricercatori hanno calcolato che per una nave delle dimensioni del relitto di Grado la cisterna per i pesci avrebbe potuto contenere circa 4 metri cubi d’acqua, sufficienti a mantenere in vita 200 chilogrammi di pesce.

Schema che mostra il possibile funzionamento della pompa
Schema che mostra il possibile funzionamento della pompa

Per rifornire il pesce di ossigeno, l’acqua della vasca doveva subire un ricambio completo ogni 30 minuti. La pompa avrebbe fornito un flusso quasi costante di 252 litri al minuto, rimpiazzando l’intero contenuto di liquido nella vasca in soli 16 minuti.

Per quanto affascinante come idea, siamo sempre nel campo delle ipotesi. Ad oggi non c’è nessuna traccia dell’esistenza di una pompa simile collegata ad una vasca per pesci, come sottolinea Tracey Ruhll, storica della Swansea University. Anche se, a suo parere, i ricercatori hanno scartato l’ipotesi della pompa-idrante troppo frettolosamente, il tubo potrebbe essere effettivamente servito per mantenere vivo del pesce. “Prove letterarie e archeologiche suggeriscono che il pesce venisse effettivamente trasportato vivo e fresco sia dai Greci che dai Romani, su una scala ridotta ma significativa” dice Rihll.

Se l’ ipotesi della vasca per pesci a bordo della nave di Grado fosse vera, questo cambierebbe il modo in cui abbiamo dipinto le abitudini alimentari e commerciali degli antichi. Una vasca di questo tipo presupporrebbe l’esistenza di un commercio di pesce fresco e vivo sul Mediterraneo. “Cambierebbe completamente la nostra idea del mercato del pesce dell’antichità” dice Beltrame. “Pensavamo che il pesce dovesse essere mangiato vicino ai porti in cui approdavano le navi. Con questo sistema, potevano trasportare pesce fresco quasi ovunque”.

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La porpora: storia e produzione nell’antichità https://www.vitantica.net/2017/10/09/la-porpora/ https://www.vitantica.net/2017/10/09/la-porpora/#comments Mon, 09 Oct 2017 02:00:50 +0000 https://www.vitantica.net/?p=540 La porpora, chiamata anche rosso di Tiro o viola imperiale, è un pigmento rosso-violaceo ottenuto dalla secrezione di una ghiandola del murice comune, un mollusco della famiglia dei Muricidi, e di altri molluschi relativamente comuni nel Mediterraneo.

La porpora era uno dei pochissimi pigmenti antichi che non perdeva intensità anche dopo numerosi lavaggi, e forse l’unico che diventava più brillante con l’esposizione continua alla luce solare.

Nei millenni passati la porpora, difficile da produrre per vie dalle enormi quantità di molluschi necessari alla sua preparazione, fu spesso associata all’idea di ricchezza, potere e prestigio e raggiunse di frequente un valore commerciale superiore a quello dell’oro e di alcune pietre preziose.

La porpora come status symbol

La creazione del pigmento porpora si attribuisce ai Fenici circa 3.600 anni fa e contribuì non poco alla ricchezza e alla fama di commercianti e marinai di questo popolo, anche se alcune recenti scoperte archeologiche a Creta suggeriscono che quest’isola fu un importante centro di produzione delle porpora qualche secolo prima che i Fenici conquistassero il dominio commerciale di questo pigmento.

Sudario di Carlomagno colorato con porpora e oro
Sudario di Carlomagno colorato con porpora e oro

Spesso scambiata con argento o altre materie prime rare, la porpora diventò ben presto uno status symbol lungo tutte le coste del Mediterraneo.

Cornelio Nepote, storico romano vissuto tra il 100 a.C. e il 27 a.C., cita i prezzi della porpora:

Quando ero giovane, era di moda la porpora violacea e una libbra si vendeva cento denari; non molto tempo dopo era di moda la porpora vermiglia di Taranto.

A questa successe la dibapha di Tiro, che non si poteva comprare con mille denari per libbra… Si chiamava allora dibapha la porpora tinta due volte (come si trattasse di un dispendio fastoso), allo stesso modo in cui ora si tingono tutte le porpore scelte

Gli abiti colorati con questo pigmento erano così richiesti nell’antichità da aver contribuito in buona parte alla ricchezza dei Fenici, e il mercato stesso della porpora fu soggetto a regolamentazione sia nella Grecia e Roma antiche sia in tempi successivi.

La corte di Bisanzio, ad esempio, ne limitò l’uso ai tessuti imperiali, da cui il termine “nato nella porpora” per definire il diretto discendente al trono imperiale.

Un decreto di Diocleziano, invece, stabilì nel IV secolo d.C. un prezzo fisso per la porpora: un etto di pigmento era equivalente al valore di tre etti d’oro, o 50.000 denari (un costo traducibile in circa 20.000 euro moderni).

L’origine della porpora

La base della porpora è la secrezione rossiccio-violacea di una ghiandola presente in alcuni molluschi del Mediterraneo: Murex trunculus, Purpura lapillus, Helix ianthina e Murex brandaris.

Questi molluschi vivono in acque relativamente profonde e in antichità erano catturati utilizzando piccole nasse munite di esca lasciate sul fondale.

I molluschi usati per la produzione della porpora sfruttano la secrezione che contiene il pigmento come sedativo per le loro prede, come agente antimicrobico per i loro depositi di uova e come risposta all’aggressione da parte dei predatori naturali.

E’ possibile quindi “mungere” queste conchiglie semplicemente fingendo un’aggressione da parte di un predatore, ma il processo richiede moltissimo tempo rispetto al metodo tradizionale, molto più distruttivo ma estremamente più efficiente in termini di tempi e quantità estratte.

Murex brandaris
Murex brandaris

Il metodo tradizionale per produrre la porpora consisteva nel raccogliere grandi quantità di molluschi, separarli dal guscio protettivo e lasciarli qualche giorno al sole per dare inizio alla putrefazione, per poi tritarli in grossi mortai.

Secondo alcune ricostruzioni, 12.000 molluschi erano in grado di produrre 1,4 grammi di polvere di porpora, sufficiente a colorare solo parte di un vestito.

Questi numeri sembrano essere supportati dalla quantità di conchiglie della famiglia Muricidae scartate dal processo di lavorazione, gusci accumulati nel corso dei secoli nei pressi dei centri di produzione della porpora e che spesso formavano cumuli alti decine di metri.

Una descrizione dei tipi di molluschi impiegati per la produzione di porpora viene da Plinio il Vecchio:

Le porpore vivono al massimo sette anni. Si nascondono, come i murici, all’inizio della canicola per trenta giorni. In inverno si riuniscono e, sfregandosi tra di loro emettono un particolare umore mucoso.

Nella stessa maniera fanno i murici. Ma le porpore hanno in mezzo alla bocca quel fiore ricercato per tingere le vesti. Qui si trova una candida vena con pochissimo liquido, da cui nasce quel prezioso colore di rosa che tende al nero e risplende. Il resto del corpo non serve a niente.

Si cerca di catturarle vive, perché gettano fuori questo succo insieme alla vita. E si estrae dalle porpore più grandi dopo che viene tolta la conchiglia, mentre le più piccole vengono frantumate vive con la mola, in modo da fargli espellere quel liquido.

[…]

Le porpore vengono chiamate anche pelagie. Ce ne sono molti tipi, che si diversificano per l’alimentazione e per il substrato dove si trovano.

La lutense si nutre di fango mentre la algense di alghe, entrambe sono di scarsissimo valore: migliore è la teniense, che si raccoglie negli scogli; ma anche questa è troppo leggera e liquida; la calcolense prende il nome dai sassi del mare, incredibilmente adatta alle conchiglie in genere e soprattutto per le porpore; la dialutense si chiama così perché si nutre in substrati di vario genere.

Le porpore si prendono con strumenti simili a nasse, piccoli e con maglie larghe, gettati in profondità. Essi contengono come esca delle conchiglie chiuse e robuste, come i mitili: queste, mezze morte, ma ritornate in mare, rivivono aprendosi rapidamente e richiamano le porpore, che le penetrano con le loro lingue distese; ma quelle, stimolate dall’aculeo, si chiudono e stringono le lingue: così le porpore vengono tenute penzolanti per la loro avidità.

La produzione della porpora

Alcuni autori antichi descrivono il terribile odore di putrefazione che emanavano centinaia di migliaia di molluschi lasciati a marcire all’interno di grosse tinozze; i centri di produzione della porpora si trovavano generalmente lontano dagli insediamenti urbani per evitare di sottoporre gli abitanti ai miasmi emessi dai molluschi al macero.

Non conosciamo molti dettagli sulle varie fasi di lavorazione successive alla macerazione se non da Plinio il Vecchio, che descrive brevemente nella sua Historia naturalis il processo di produzione in uso sulla penisola italica:

La parte carnosa dell’animale, in cui si trova la ghiandola, era staccata dalla conchiglia e depositata in cavità scavate direttamente nel terreno. Dopo tre giorni di decomposizione, accompagnati da un odore quasi insopportabile, si procedeva a sistemare i molluschi in contenitori con acqua salata, riscaldandoli per un breve periodo. Il prodotto finale, ottenuto al termine di un processo che durava circa dieci giorni, era un liquido incolore o giallo pallido che acquistava il famoso colore violaceo solo in seguito all’esposizione al sole

Dopo aver tritato i molluschi in putrefazione e averli fatti bollire in acqua, le parti solide venivano filtrate e si aggiungeva sale alla soluzione, continuando la bollitura per qualche giorno fino a raggiungere la tonalità desiderata.

Una volta raggiunta la giusta tonalità, le fibre da colorare erano immerse nell’acqua calda (raramente venivano immersi tessuti interi) e lasciate a bagno per qualche tempo fino ad assumere una tinta permanente di porpora.

Veste bizantina colorata con la porpora
Veste bizantina colorata con la porpora
La porpora fenicia

Nella mitologia fenicia la scoperta della porpora viene attribuita al cane di Tyros, moglie del dio Melqart e patrona della città di Tiro: un giorno, camminando lungo la spiaggia, Melqart e la sua compagna notarono che il cane stava mordendo un mollusco spiaggiato.

Più mordeva il mollusco, più la bocca dell’animale si colorava di viola: Tyros fece quindi realizzare un abito colorato con il pigmento del mollusco, dando inizio all’industria della porpora fenicia.

La porpora fenicia rimase per molto tempo la qualità più pregiata in circolazione. I Fenici potevano vantare non solo un accesso facilitato alle materie prime necessarie alla produzione del pigmento (si spinsero fino alle Canarie per raccogliere molluschi), ma avevano accumulato secoli di esperienza nel mescolare differenti varietà di molluschi per ottenere pigmenti particolarmente rari e ricercati che andavano da un rosso profondo ad un indaco con tonalità bluastre.

I Fenici iniziarono a produrre porpora almeno 3.500 anni fa; nel corso dei secoli, la Fenicia si guadagnò il nome di “terra della porpora” per via della quantità e delle diverse varianti di pigmento prodotte ed esportate su tutto il Mediterraneo.

I Fenici producevano anche un pigmento indaco, chiamato anche “blu reale”, ottenuto dagli stessi molluschi utilizzati per il pigmento porpora. Stabilirono un avamposto per la produzione di indaco a Mogador, in Marocco, dove si raccoglievano e si lavoravano le secrezioni dei molluschi Hexaplex trunculus (o Murex trunculus, come venivano chiamati in precedenza).

Come per tutti i materiali pregiati, anche la porpora fu soggetta ad imitazioni a basso costo. Un metodo in grado di riprodurre alcune delle tinte della porpora era di origine gallica e prevedeva l’impiego di alcune specie di licheni o bacche per colorare i tessuti prima con pigmenti rossi e successivamente con pigmenti blu.

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