giappone – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Team giapponese replica l’antica (e ipotetica) migrazione da Taiwan a Okinawa https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/ https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/#comments Mon, 15 Jul 2019 00:10:10 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4419 Secondo i maggiori esperti del Paleolitico giapponese, i primi insediamenti umani in Giappone risalirebbero a circa 30.000 anni fa. Ad oggi non abbiamo alcuna certezza su come le isole nipponiche siano state popolate dall’uomo in epoca paleolitica, ma gli studiosi della preistoria giapponese hanno formulato tre differenti ipotesi.

La prima ipotesi prevede che i primi abitanti del Giappone siano giunti dalla Corea attraverso lo stretto di Tsushima; la seconda, invece, sostiene che le comunità paleolitiche eurasiatiche abbiano attraversato il lembo di mare tra la Russia e Hokkaido per poi superare lo stretto di Tsugaru, che separa l’isola di Hokkaido da quella di Honshu.

La terza ipotesi, invece, afferma che gli esseri umani giunti in Giappone intorno a 30-40.000 anni fa provenissero da Taiwan. Per dimostrare la fattibilità dell’impresa, un team di ricercatori giapponesi e taiwanesi ha percorso il tratto di mare che separa Taiwan dall’isola giapponese di Yonaguni a bordo di una canoa a scafo monossilo.

Una traversata senza strumenti

La traversata di 200 km è stata compiuta a bordo di una canoa ricavata da un singolo tronco d’albero, lunga 7,6 metri e larga 70 centimetri. I cinque membri dell’equipaggio, un taiwanese e 4 giapponesi, hanno solcato il mare per due giorni consecutivi orientandosi esclusivamente con il sole, le stelle e i venti seguendo i metodi tradizionali di navigazione utilizzati nel Pacifico, come il sistema di navigazione polinesiano.

Il progetto, iniziato nel 2017 grazie alla collaborazione del National Museum of Nature and Science giapponese e del National Museum of Prehistory di Taiwan, aveva l’obiettivo di verificare la fattibilità di un viaggio simile utilizzando la tecnologia paleolitica.

“E’ stato un viaggio perfetto” spiega Koji Hara, uno dei 5 membri dell’equipaggio. “La Corrente Nera ha trasportato la canoa e ci siamo limitati a manovrarla un pochino”. All’arrivo sull’isola di Yonaguni, la spedizione è stata accolta dalle celebrazioni dei residenti, lieti di vedere il progetto concludersi con successo.

Prima di questa spedizione erano stati effettuati altri due tentativi, uno nel 2017 e un altro nel 2018, partendo dall’isola di Yonaguni a bordo di imbarcazioni realizzate con paglia, bambù e rattan. La prima spedizione ha coperto solo 66 km, mentre la seconda ha resistito poco al mare aperto, costringendo l’equipaggio ad interrompere l’impresa.

Kuroshio, la Corrente Giapponese

Quella che viene definita come “Corrente Nera”, “Kuroshio” o “Corrente Giapponese” è una corrente oceanica nel Pacifico settentrionale che ha inizio nelle Filippine e fluisce verso Nord lungo la costa orientale del Giappone. Si tratta essenzialmente di una corrente che svolge una funziona analoga alla Corrente del Golfo atlantica, trasportando acqua calda tropicale verso le regioni polari.

La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan
La spedizione poco dopo la partenza da Taiwan

Durante il suo passaggio, la Corrente Giapponese crea vasti vortici del diametro di 100-300 km che possono persistere per mesi interi. Questi vortici sembrano rappresentare un ambiente ideale per la sopravvivenza di molte specie di larve di pesce e favorire l’accumulo di plankton.

L’isola di Yonaguni, appartenente alla prefettura di Okinawa, si trova nel bel mezzo della corrente Kuroshio. Essendo l’ultima isola giapponese a Sud prima di Taiwan, potrebbe aver rappresentato il primo approdo per raggiungere le isole maggiori giapponesi.

Yonaguni costituisce infatti il primo passo per raggiungere Okinawa: superando tratti di mare di 50-100 km seguendo la Corrente Nera, è possibile raggiungere l’isola di Ishigaki, quella di Miyakojima e infine Okinawa. Spingendosi ancora più a nord sospinti dalla Kuroshio si raggiunge il Kyūshū, una delle isole maggiori del Giappone.

Diverse ondate migratorie

La maggior parte delle ricerche antropologiche sugli antichi abitanti del Giappone suggeriscono che le isole nipponiche siano state occupate in almeno due ondate migratorie; la più recente si è verificata circa 2.300 anni fa tra Corea e Giappone.

Per quanto riguarda il flusso migratorio più antico, le analisi della morfologia dentale degli antichi giapponesi suggerirebbero che le isole maggiori siano state popolate circa 30.000 anni fa da individui provenienti da Okinawa; la genetica, invece, propone l’ipotesi di un arrivo precedente, circa 40.000 anni fa, frutto di un’ondata migratoria partita dalla Siberia.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Lo scenario più probabile è che le isole maggiori del Giappone siano state occupate da migrazioni provenienti dalla Siberia, dalla Corea e da Taiwan, e non da un singolo evento migratorio localizzabile con precisione. Alcuni archeologi ritengono inoltre che i primi abitanti giapponesi siano giunti 100.000 anni fa sfruttando ponti di terre emerse che collegavano la penisola coreana con Honshu e Hokkaido.

Team successfully replicates imagined ancient sea migration from Taiwan to Okinawa
Advanced maritime adaptation in the western Pacific coastal region extends back to 35,000-30,000 years before present
EARLY MAN IN JAPAN

]]>
https://www.vitantica.net/2019/07/15/antica-migrazione-taiwan-okinawa/feed/ 1
William Adams, il primo samurai europeo https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/ https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/#respond Fri, 22 Mar 2019 00:10:50 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3819 Molti di voi avranno visto il film “L’ultimo samurai”, che dipinge le gesta di un americano dall’indomito spirito guerriero divenuto samurai dopo essere caduto preda del fascino dei famigerati guerrieri giapponesi.

Se istintivamente avete scartato l’ipotesi che uno straniero potesse diventare samurai in un Giappone conservatore e legato indissolubilmente alle antiche tradizioni, la realtà è che nel corso dei secoli passati i samurai di origine non nipponica furono diversi, primo tra tutti William Adams.

Adams non fu il primo samurai straniero della storia del Giappone: fu probabilmente preceduto da un africano, Yasuke, che servì sotto Oda Nobunaga 20 anni prima dell’arrivo dell’inglese. E’ anche accertato che alcuni coreani e cinesi ottennero il titolo di samurai durante il periodo Sengoku, ma Adams fu certamente il primo samurai europeo della storia.

Una vita da marinaio

William Adams era originario di Gillingham, Inghilterra. Nato nel settembre del 1564, rimase orfano di padre all’età di 12 anni e venne preso come apprendista dal costruttore di navi Nicholas Diggins. Adams trascorse i successivi 12 anni imparando il mestiere del marinaio, e molte altre nozioni utili alla vita sul mare come l’astronomia, la navigazione e le tecniche costruttive dei vascelli inglesi.

Dopo essersi arruolato, Adams servì la Marina Reale sotto nientemeno che Sir Francis Drake, il famoso corsaro e navigatore inglese. Partecipò anche alle manovre di contrasto dell’ Invincibile Armata spagnola nel 1588 a bordo del vascello di supporto Richarde Dyffylde.

Terminata la guerra, Adams fu assunto come navigatore della Barbary Company, una compagnia commerciale creata dalla regina Elisabetta I nel 1585 che per circa 12 anni potè godere di un trattato commerciale esclusivo con il Marocco.

Secondo le fonti gesuite, Adams partecipò anche ad una spedizione diretta verso Oriente durata circa due anni, alla ricerca del Passaggio a nord-est lungo la costa della Siberia; in una sua lettera autobiografica, tuttavia, Adams non cita mai la sua partecipazione all’impresa.

La flotta su cui era imbarcato Adams: la "Blijde Bootschap", la "Trouwe", la "T Gelooue", la "Liefde" e la "Hoope"
La flotta su cui era imbarcato Adams: la “Blijde Bootschap”, la “Trouwe”, la “T Gelooue”, la “Liefde” e la “Hoope”

All’età di 34 anni, Adams prese parte nel ruolo di pilota ad una spedizione mercantile olandese verso il Sud America, nella speranza di vendere il carico della flotta in cambio di argento.

La piccola flotta di cinque navi salpò da Rotterdam nel 1598; come piano di riserva in caso di fallimento della spedizione era previsto di far rotta verso il Giappone per ottenere argento da utilizzare per acquistare spezie nelle Molucche prima di tornare in Europa.

La spedizione fu un fallimento: in corrispondenza del’isola di Annobòn la flotta fu attaccata e costretta a dirigersi verso lo Stretto di Magellano; flagellata dal tempo e dai capricci dell’Atlantico, solo tre navi riuscirono a superare lo stretto.

Ben presto la flotta si ridusse ad una sola nave dopo che l’equipaggio della Hoope fu sterminato da un tifone in prossimità delle Hawaii nel febbraio del 1600 e la Trouw fu attaccata in Indonesia da navi portoghesi nel 1601.

L’arrivo in Giappone

Quasi due anni dopo aver girovagato per il Pacifico, Adams, a bordo dell’ultima nave della spedizione, la Liefde, si ritrovarò a sbarcare sull’isola di Kyushu in Giappone in compagnia di un equipaggio di soli 20 uomini malati e stanchi.

Il carico della nave consisteva in tessuti, perle di vetro, specchi, utensili di metallo, chiodi, 19 cannoni di bronzo, 5.000 palle di cannone, 500 moschetti e tre bauli pieni di cotte di maglia.

William Adams incontra Tokugawa Ieyasu
William Adams incontra Tokugawa Ieyasu in una mappa del Giappone del 1707 di Pieter van der Aa

Dopo essersi ripreso dal viaggio, l’equipaggio della Liefde si spostò a Bungo (nell’attuale prefettura di Oita). Qualche giorno dopo lo sbarco, Adams e l’equipaggio furono imprigionati nel castello di Osaka per ordine diretto di Tokugawa Ieyasu: alcuni gesuiti portoghesi suggerirono che i nuovi arrivati fossero pirati e consigliarono al daimyo di Edo di giustiziare l’intero equipaggio.

Ma fu proprio l’incontro con Ieyasu che cambiò in meglio la sorte di Adams: considerata la vasta esperienza dell’inglese nella costruzione di navi e nella navigazione, il futuro shogun decise di liberare l’equipaggio dopo aver attentamente valutato le conversazioni avute con il marinaio inglese durante i tre interrogatori che precedettero la sua liberazione.

Il rapporto tra Adams e Ieyasu

Nel 1604, Tokugawa chiese ad Adams di costruire una nave in stile occidentale per Mukai Shogen, comandante in capo della flotta di Uraga. I lavori, condotti nel porto di Ito, portarono alla costruzione di un vascello di otto tonnellate, al quale fece seguito una nave di 120 tonnellate, simile alla Liefde, rinominata successivamente “San Buena ventura“.

La costruzione di queste due navi fece entrare Adams nelle grazie di Tokugawa. Ma mentre la maggior parte dell’equipaggio ottenne il permesso di lasciare il Giappone nel 1605, ad Adams non fu concesso di lasciare il Paese fino al 1613, anche se l’inglese decise di non fare più ritorno in Europa per il resto della sua vita.

Ritratto di Adams dal "Black Ship Scroll"
Ritratto di Adams dal “Black Ship Scroll”

Durante la sua permanenza alla corte di Tokugawa, Adams assunse presto il ruolo di diplomatico, diventando consigliere personale dello shogun per le questioni commerciali e ogni attività connessa ai contatti con il mondo occidentale. Dopo pochi anni Adams sostituì il gesuita João Rodrigues nel ruolo di interprete ufficiale dello shogun.

Adams ottenne infine il titolo di samurai. Lo shogun decretò che il pilota William Adams era defunto e che era nato un nuovo samurai: Miura Anjin.

La carica rendeva di fatto Adams un servitore ufficiale dello shogunato e annullava ogni legame con la sua patria d’origine: Adams inviò regolarmente somme di denaro alla moglie e ai figli rimasti in Inghilterra sfruttando i contatti commerciali con le compagnie olandesi e inglesi, ma non riuscì mai più a ricongiungersi con la sua famiglia.

Adams ricevette anche la carica di “hatamoto“, un titolo estremamente prestigioso che consentiva al vassallo di conferire direttamente con lo shogun.

Una nuova vita in Giappone

Ad Adams fu assegnato un feudo a Hemi (in corrispondenza dell’odierna città di Yokosuka), con un seguito di schiavi e servitori composto da 80-90 persone. Le sue proprietà furono valutate a circa 250 koku: un koku corrispondeva alla quantità di riso necessaria a sfamare una persona per un anno.

Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613
Estratto di una lettera di William Adams scritta a Hirado per la Compagnia delle Indie Orientali nel 1613

Dato che il suo nuovo rango recideva ogni legame con la sua vita in Inghilterra, Adams sposò Oyuki, la nipote adottiva dell’ufficiale governativo Magome Kageyu, avendo da lei Joseph e Susanna.

Considerata la presenza di cattolici nel Giappone del XVII secolo e il fatto che Adams fosse protestante, l’inglese fu bersaglio di numerose campagne di discredito ordite dai gesuiti: inizialmente si tentò di convertirlo, in seguito gli si offrì segretamente un modo per fuggire dal Giappone a bordo di una nave portoghese, offerta che Adams non accettò mai anche dopo la caduta del divieto di lasciare il Sol Levante imposto per anni da Ieyasu.

La vita di Adams divenne quella di un vero e proprio giapponese: ottenne il rispetto dell’intero Giappone e imparò ad apprezzare un popolo così differente dai costumi occidentali. Parlava correntemente giapponese e vestiva secondo la moda giapponese, tanto da essere stato definito da commercianti inglesi come “un giapponese naturalizzato”.

Nel corso della sua vita partecipò a diverse spedizioni in Asia nel ruolo di ambasciatore, specialmente in Siam e Vietnam, e creò un punto di scambio commerciale in Giappone per conto della Compagnia delle Indie orientali britannica.

Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki
Lapide di Miura Anjin a Hirado, nella prefettura di Nagasaki

Adams morì nel 1620 a Hirado, a nord di Nagasaki, all’età di 55 anni. La sua tomba è visibile ancora oggi, al fianco della tomba di Francis Xavier, missionario cattolico spagnolo. Nel suo testamento lasciò scritto di distribuire i suoi possedimenti e il suo patrimonio tra la famiglia lasciata in Inghilterra e la famiglia che aveva costruito in Giappone.

Ogni anno, il 15 giugno, viene celebrata la sua figura storica ad Anjin-cho, oggi chiamata Nihonbashi. Nella città di Ito, invece, ogni anno viene celebrato il Miura Anjin Festival il 10 agosto; in quello che fu un tempo il suo feudo, un villaggio e una stazione ferroviaria portano un nome che evoca il passaggio di Adams: Anjinzuka.

William Adams (sailor, born 1564)
Will Adams, The First Englishman in Japan
William Adams, the First Englishman in Japan

]]>
https://www.vitantica.net/2019/03/22/william-adams-primo-samurai-europeo/feed/ 0
Ninja: gli shinobi tra verità storica e mito https://www.vitantica.net/2019/03/18/ninja-shinobi-verita-storica-e-mito/ https://www.vitantica.net/2019/03/18/ninja-shinobi-verita-storica-e-mito/#respond Mon, 18 Mar 2019 00:10:01 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3778 La popolarizzazione dei combattenti antichi avvenuta durante il XX secolo grazie al cinema e alla letteratura ha contribuito a creare figure leggendarie, spesso circondate da misteri mai esistiti, dotate di abilità mai possedute o relegate a ruoli mai assunti.

Una di queste figure è quella dello shinobi, conosciuto più comunemente come ninja. I ninja si prestano particolarmente alla spettacolarizzazione cinematografica: spie combattenti dotate di poteri soprannaturali ed equipaggiate con armi non tradizionali. Li abbiamo visti in tutte le salse, in una quantità incalcolabile di film d’azione e in panni per nulla attribuibili a spie giapponesi d’epoca medievale. Cosa c’è di vero, quindi, sui ninja?

Ninja: un termine poco utilizzato

Il termine “ninja” è stato storicamente poco utilizzato. Il ben più diffuso “shinobi”, una forma contratta di “shinobi-no-mono“, si trova nella letteratura giapponese fin dall’ VIII secolo (ad esempio, nell’opera poetica Man’yoshu) e significa “sottrarre; nascondersi”.

Shinobi è un termine generalmente destinato ad un utilizzo al maschile; per le spie di sesso femminile si utilizzava più comunemente la parola kunoichi. Questa distinzione tuttavia non fu utilizzata all’inizio della storia delle spie giapponesi: fino al XV secolo gli shinobi non erano formalmente raggruppati in clan, e qualunque spia poteva essere considerata shinobi.

Altri termini sono stati impiegati per identificare chi praticava attività di spionaggio: monomi (“colui che vede”), nokizaru (“macaco sul tetto”), rappa (“bandito”) e Iga-mono (“uomo di Iga”, una regione storicamente legata agli shinobi).

Esiste anche un’intero ventaglio di nomi regionali impiegati per definire uno shinobi: a Kyoto si usavano le parole “suppa, “ukami” o “dakkou“, mebntre nella prefettura di Miyagi la parola “kurohabaki“; a Niigata erano comuni invece “nokizaru“, “kanshi” e “kikimonoyaku“.

Shinobi e fonti storiche

Per quanto siano nate innumerevoli leggende sulle origini degli shinobi giapponesi, le fonti storiche degne di tale nome e in grado di descriverne l’origine e le attività in cui erano coinvolti sono scarse.

Le ragioni dell’assenza di fonti storiche sembrano essere legate sia alla segretezza delle loro vite, sia allo scarso interesse che suscitavano nelle corti del tempo, più interessate alle nobili gesta dei samurai che ai sotterfugi e alle meschinità delle spie.

La ripugnanza che suscitavano le attività si spionaggio ha origini antiche: l’episodio di Koharumaru, incaricato nel X secolo di spiare Taira no Masakado camuffato da trasportatore di carbone, è indicativo del disprezzo provato nei confronti le spie da parte della società nipponica del tempo.

Allo stesso tempo, tuttavia, le attività degli shinobi erano ritenute indispensabili per raccogliere informazioni o effettuare sabotaggi: nella cronaca Taiheiki (XIV secolo) si riporta l’episodio di uno shinobi particolarmente abile che riuscì a dare alle fiamme un intero castello.

Nei casi sopra citati gli shinobi non erano altro che soldati e samurai a cui venivano affidate missioni di spionaggio. Le prime, vere tracce storiche di individui esclusivamente dediti allo spionaggio risalgono al XV secolo: in questo periodo la parola shinobi identifica con chiarezza gruppi di agenti segreti volti a sabotare e infiltrarsi oltre le linee nemiche.

A partire dal XV secolo i ninja furono reclutati in svariate occasioni come spie, briganti, sabotatori, agitatori e terroristi; potevano compiere atti totalmente indecorosi per un samurai (anche se i samurai, di fatto, non perdevano occasione per compiere atti indegni e poco nobili) in un periodo, l’epoca Sengoku, in cui molti potentati locali erano impegnati in faide con i feudi confinanti.

Bansenshukai
Bansenshukai

Tutto ciò che sappiamo sulle abilità e sull’addestramento dei ninja proviene principalmente da manuali e rotoli realizzati meno di 4 secoli fa. A partire dal XVII secolo furono redatti diversi manuali di ninjutsu dai discendenti di Hattori Hanzo e del clan Fujibayashi, legato al clan Hattori: tra questi si contano il Ninpiden (1655), il Bansenshukai (1675) e lo Shoninki (1681).

Le scuole moderne di ninjutsu sono emerse tutte a partire dagli anni ’70 del 1900: benché basate sulle tecniche di alcuni manuali storici, l’autenticità delle scuole moderne è materia controversa per via dell’assenza di informazioni precise sulla discendenza dei maestri di ninjutsu.

Iga e Koga

Gli shinobi iniziarono ad organizzarsi in gilde composte da diverse famiglie di shinobi e a sviluppare un sistema di gradi: i jonin erano i ninja di rango più elevato, seguiti dai chunin e dai genin. Per quanto di basso rango, i genin svolgevano attività fondamentali come la raccolta di informazioni sensibili, il sabotaggio e l’infiltrazione.

E’ in questo periodo che le province di Iga e Koga iniziano a delinearsi come produttrici di shinobi di professione. I villaggi Iga e Koga addestravano uomini specificamente per le attività di spionaggio, nascosti tra montagne remote e inaccessibili in grado di custodire i segreti più preziosi dei ninja.

Tra il 1485 e il 1581 gli shinobi Iga e Koga furono utilizzati più volte dai daimyo giapponesi per raccogliere informazioni e sabotare il nemico, fino a quando Oda Nobunaga decise di radere al suolo i villaggi della provincia di Iga, costringendo i sopravvissuti a trovare rifugio tra le montagni di Kii o ad affidarsi a Tokugawa Ieyasu (come fece Hattori Hanzo, che divenne una delle guardie dello shogun).

Dopo l’insediamento dei Tokugawa, gli Iga assunsero il ruolo di guardie dello shogun a Edo, mentre i Koga quello di forza di polizia. Gli shinobi continuarono comunque a partecipare ad attività di spionaggio e infiltrazione: nel 1614, Miura Yoemon reclutò 10 shinobi per infiltrarli nel castello di Osaka e fomentare l’antagonismo nei nemici dei Tokugawa.

Con la caduta dei clan Iga e Koga, i daimyo iniziarono ad addestrare i loro shinobi: una legge del 1649 stabilì che solo i daimyo che guadagnavano più di 10.000 koku potevano possedere e addestrare ninja.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Il ruoli dei ninja

Per quanto tendessero a svolgere ruoli contrari all’etichetta dei samurai, come spionaggio, sabotaggio e assassinio, molti shinobi erano loro stessi samurai o membri dell’esercito (come gli ashigaru). Non si trattava di truppe “anti-samurai” come spesso vengono dipinti: erano soldati specializzati in missioni segrete e spionaggio.

Samurai e Bushido

Spesso svolsero ruoli di fondamentale importanza in battaglie campali e furono impiegati dagli organi di governo dello shogunato per eseguire operazioni estremamente pericolose. Escludendo i villaggi delle regioni di Iga e Koga, gli shinobi erano spesso soldati scelti particolarmente versati nello spionaggio che partecipavano tuttavia anche ad assedi e scontri armati.

Il compito principale degli shinobi era quello di raccogliere informazioni sfruttando ogni mezzo possibile. Il sabotaggio (spesso portato a termine appiccando il fuoco a risorse strategicamente importanti del nemico) era un ruolo secondario ma altrettanto importante.

Il diario dell’abate Eishun, vissuto nel XVI secolo, descrive un attacco incendiario condotto da shinobi Iga:

Questa mattina, il sesto giorno dell’undicesimo mese del decimo anno di Tenbun, gli Iga sono entrati nel castello di Kasagi in segreto e hanno dato alle fiamme alcuni dei quartieri dei sacerdoti. Hanno incendiato anche i fabbricati all’interno del San-no-maru. Hanno catturato l’ Ichi-no-maru e il Ni-no-Maru.

Attribuire agli shinobi, in modo storicamente accurato, l’assassinio di personalità celebri è difficile: operazioni di questo tipo lasciano raramente tracce evidenti. Alcuni omicidi sono stati attribuiti ai ninja posteriormente al fatto, senza alcuna prova sostanziale di un loro coinvolgimento nel delitto.

Sappiamo tuttavia che Oda Nobunaga subì diversi tentativi d’omicidio da parte di alcuni shinobi, come un tiratore scelto Koga nel 1571 (Sugitani Zenjubo) e nel 1573 (Manabe Rokuro). Lo shinobi Hachisuka Tenzo fu invece inviato da Nobunaga per assassinare il daimyo Takeda Shingen.

Ninjutsu, le arti dello spionaggio

Con il termine ninjutsu si identifica in tempi moderni l’ampio bagaglio di abilità che uno shinobi doveva possedere per far fronte ad ogni circostanza avversa.

Il primo addestramento allo spionaggio specializzato sembra essere emerso verso la metà del XV secolo: gli shinobi iniziavano l’addestramento da giovanissimi e imparavano tecniche di sopravvivenza e di sorveglianza, l’uso di veleni ed esplosivi e abilità fisiche come l’arrampicata, la corsa su lunghe distanze e il nuoto.

Sappiamo inoltre che alcuni ninja, come lo shinobi Iga riportato in un resoconto storico relativo a Ii Naomasa, disponevano di conoscenze mediche utili in battaglia; per ridurre al minimo il loro odore corporeo, tendevano ad avere una dieta vegetariana in preparazione di una missione.

Monaco komuso
Monaco komuso

Gli shinobi dovevano necessariamente possedere anche la conoscenza di svariati mestieri per poter infiltrarsi tra il nemico sotto mentite spoglie. Si travestivano spesso da sacerdoti, monaci, mendicanti, mercanti, ronin e intrattenitori: travestirsi da sarugaku (menestrello) consentiva di infiltrarsi all’ìinterno degli edifici nemici, mentre l’abito dei monaci komuso permetteva di mascherare completamente il volto tramite il tipico cappello a canestro.

Le tecniche di spionaggio, d’infiltrazione e “stealth” venivano vagamente raggruppate in quattro gruppi: tecniche di fuoco (katon-no-jutsu), d’acqua (suiton-no-jutsu), di legno (mokuton-no-jutsu) e di terra (doton-no-jutsu).

Grazie ad alcuni manuali e rotoli custoditi per generazioni dai clan di shinobi, siamo in grado ci conoscere alcune delle strategie utilizzate per lo spionaggio:

  • Hitsuke: distrarre le guardie appiccando fuochi lontano dal punto d’ingresso dello shinobi;
  • Tanuki-gakure: arrampicata sugli alberi e camuffamento tra il fogliame. Rientra tra le “tecniche di legno”;
  • Ukigusa-gakure: uso delle piante acquatiche per nascondere i movimenti subacquei;
  • Uzura-gakure: rannicchiarsi come una palla e rimanere immobili per apparire come una roccia.
Miti e leggende metropolitane sui ninja
Abiti neri

Indossare un distintivo abito nero per raccogliere informazioni non è molto pratico: è estremamente riconoscibile tra una folla vestita in abiti tradizionali o contadini. Come accennato in precedenza, gli shinobi preferivano di gran lunga mimetizzarsi nel tessuto sociale indossando gli abiti di figure comuni di “basso profilo”.

Abiti blu

Circola una sorta di “correzione” del mito legato alle uniformi nere dei ninja: erano blu, il miglior colore per nascondersi durante la notte. L’uso del colore blu appare in uno dei manuali scritti durante il XVII secolo, ma viene semplicemente consigliato perché era un pigmento comune nella moda del tempo e utile a non distinguersi.

Spade dritte

In molte film il ninja impugna spade dal filo dritto. Non esiste alcuna prova che gli shinobi utilizzassero questo tipo di spade, che richiedevano una lavorazione differente dalle lame da combattimento normalmente prodotte dai fabbri giapponesi.

La prima apparizione di queste spade dritte (ninjato) è del 1956 nel libro “Ninjutsu” di Heishichiro Okuse; la forma delle “spade ninja” fu poi popolarizzata dal Ninja Museum di Igaryu nel 1964.

Ninjutsu e combattimento

Nessuno dei tre manuali storici del ninjutsu (Ninpiden, Bansenshukai e Shoninki) riporta tecniche di combattimento. Il Bansenshukai dice soltanto che uno shinobi dovrebbe allenarsi nel combattimento con la spada, ma non fornisce alcuna istruzione sul combattimento.

Questo non significa che i ninja non fossero combattenti, ma che molto probabilmente provenivano da classi guerriere. Si dava per scontato che conoscessero i fondamentali del combattimento: il ninjutsu non era un’arte marziale, ma una collezione di tecniche di sopravvivenza, spionaggio e sabotaggio.

NINJAS IN JAPAN AND THEIR HISTORY
25 Fascinating Facts About The Real Ninja Of History
THE SHOCKING TRUTH ABOUT NINJA MARTIAL ARTS (FROM HISTORICAL DOCUMENTS)

]]>
https://www.vitantica.net/2019/03/18/ninja-shinobi-verita-storica-e-mito/feed/ 0
Katana: storia e curiosità sulla più celebre spada giapponese https://www.vitantica.net/2018/12/26/katana-storia-curiosita-spada-giapponese/ https://www.vitantica.net/2018/12/26/katana-storia-curiosita-spada-giapponese/#respond Wed, 26 Dec 2018 00:10:56 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3389 Sulla katana circolano storie e leggende che talvolta sfiorano l’inverosimile. Nel corso dei secoli, a queste spade sono stati attribuiti poteri quasi sovrannaturali, ma quanto c’è di vero negli aspetti più straordinari della katana?

Affrontare in modo approfondito la storia delle spade giapponesi richiederebbe interi volumi dedicati alla loro evoluzione, alle tecniche costruttive e al ruolo sociale che la katana ha ricoperto fin dall’inizio dell’età classica giapponese.

Mi limiterò, quindi, a riportare alcune informazioni e curiosità su cui basare i vostri approfondimenti personali.

Katana e spade lunghe giapponesi

La katana viene generalmente definita come una spada nihonto dalla lama leggermente curva, dal taglio singolo e dalla lunghezza di 60-70 centimetri (l’equivalente di 2 shaku – o piedi – giapponesi).

La katana non è molto differente dalla spada tachi (e come essa appartiene alla categoria generica delle “spade lunghe”, o daito), un’arma più lunga e con una curvatura della lama più pronunciata; non è raro che le due tipologie di spade giapponesi siano distinguibili solo dalla firma sul codolo (nagako).

Tipologie di katana
Tipologie e stili di katana

La veloce estrazione della katana dal suo fodero, possibile grazie alla lama generalmente più corta (e più pesante, a parità di lunghezza) di quella del tachi, era perfetta per lo stile di combattimento giapponese, in cui il colpo più veloce, generalmente un fendente, doveva essere in grado di abbattere all’istante un avversario.

Anche il modo di indossare la spada lunga subì dei cambiamenti dopo l’origine della katana: quest’arma consentiva di estrarre e colpire l’avversario in un unico gesto, a patto che fosse indossata in modo differente rispetto al tachi.

La storia della katana

La spada che oggi chiamiamo katana sembra aver assunto la sua forma definitiva verso la fine del XIV secolo. In origine fu essenzialmente un’evoluzione della spada tachi nata per rispondere all’esigenza di lame agili e versatili utilizzabili anche in spazi ristretti.

Se si parla di katane tradizionali, i metodi di produzione dell’acciaio e le tecniche costruttive non hanno subito cambiamenti o evoluzioni da almeno 500 anni; sotto molti aspetti, la katana è un “residuo fossile” del Giappone medievale.

Utilizzare il termine katana per definire ogni spada giapponese dotata di certe caratteristiche, indipendentemente dalla collocazione temporale dell’ arma in esame, non è del tutto corretto.

Come capita per i cambiamenti sociali avvenuti nelle culture presenti e passate, anche la concezione della guerra e delle armi ha attraversato periodi differenti; una katana prodotta prima dell 1573 (periodo Muromachi) veniva realizzata utilizzando tecniche costruttive differenti rispetto ad una katana prodotta in tempi relativamente moderni.

Evoluzione della katana nel corso della storia giapponese
Evoluzione della katana nel corso della storia giapponese
Periodizzazione

La produzione di spade giapponesi è stata periodizzata in sei fasi:

  • Jokoto (spade antiche fino al 900 d.C.)
  • Koto (dal 900 al 1596)
  • Shinto (1596–1780)
  • Shinshinto (1781–1876)
  • Gendaito (spade moderne, dal 1876 al 1945)
  • Shinsakuto (spade nuove, dal 1953 a oggi)

La spada tachi, nata intorno al periodo Heian (782 – 1180) dopo che i giapponesi appresero la tecnica della tempra differenziale dai cinesi, fu il primo stadio dell’evoluzione della spada lunga giapponese. Venivano indossate con il filo della lama rivolto verso il basso ed erano armi spesso impugnate da cavalieri.

Durante il periodo Kamakura (1181 – 1330) i fabbri giapponesi perfezionano l’arte costruttiva delle spade fino a formare quelle che vengono definite “Cinque Scuole” di spadai: Yamashiro, Yamato, Bizen, Soshu e Mino.

In questo periodo appaiono i primi riferimenti a due differenti stili di spada: uchigatana e tsubagatana, spade relativamente economiche destinate a guerrieri di basso rango.

Durante il periodo Muromachi (1392 – 1573) la katana divenne sempre meno un’arma da cavalleria per trasformarsi in spada da fanteria: la lama si accorciò, la curvatura fu sempre meno pronunciata e iniziò la pratica di indossarla con il filo tagliente rivolto verso l’alto.

La natura del combattimento corpo a corpo iniziò a mutare: i samurai del periodo Muromachi iniziarono ad essere coinvolti in combattimenti molto ravvicinati che richiedevano un’estrazione veloce della spada e periodi di risposta molto ridotti.

L’acciaio tamahagane
Acciaio tamahagane
Acciaio tamahagane

Ci sono dei punti in comune tra presente e passato, caratteristiche che possono definire in modo più o meno preciso una katana giapponese autentica, come il tipo di acciaio utilizzato per forgiarla.

Una katana realizzata con metodi tradizionali viene prodotta a partire dall’acciaio tamahagane, una combinazione di acciaio ad alto e basso contenuto di carbonio. Questo tipo di composizione consente di ottenere lame allo stesso tempo estremamente affilate ma difficili da rompere in combattimento.

L’acciaio tamahagane veniva prodotto tradizionalmente solo 3-4 volte all’anno tramite un processo che richiedeva 5 giorni tra la costruzione della fornace (tatara), la produzione vera e propria dell’acciaio e la pulitura finale della lega. Per ottenere circa 2 tonnellate di acciaio (delle quali solo la metà era di qualità tamahagane) venivano utilizzate 13 tonnellate di carbone e 8 di sabbia nera (satetsu).

Il processo di creazione dell’acciaio tamahagane consentiva di rimuovere parte delle impurità del metallo e controllare la quantità di carbonio nell’acciaio. Il ferro più “vecchio”, dotato di un contenuto di ossigeno più alto, era particolarmente adatto alla creazione di tamahagane e consentiva di ottenere lame forti, resistenti e flessibili.

La forgiatura di una katana
Lavorazione dell’acciaio tamahagane

Una volta acquistata una porzione di tamahagane, il fabbro iniziava a comporre un “puzzle” di frammenti di acciaio in base al contenuto di carbonio dei frammenti stessi, portando il tutto ad elevata temperatura per ottenere un lingotto lavorabile.

Il lingotto veniva allungato, martellato e piegato su se stesso diverse volte (da 10 a 16) per eliminare la maggior parte delle impurita residue che avrebbero potuto compromettere la resistenza e l’integrità della futura lama.

Per fornire ulteriore resistenza alla spada, verso il termine della forgiatura alcuni fabbri piegavano ad angolo acuto il lingotto per inserire al suo interno un pezzo di acciaio “dolce”, più morbido e meno fragile rispetto a quello esterno. In questo modo si poteva ottenere una lama dalla superficie esterna dura e dotata di un’anima interna morbida, massimizzandone la resistenza.

La tempra differenziale

Il fabbro procedeva quindi con la lavorazione del lingotto per ottenere una bozza della forma finale della spada. La curvatura della lama emergeva spontaneamente temprando l’acciaio attraverso una tecnica definita “tempra differenziale“: ogni costrutture di spade ricopriva la lama con diversi strati di un composto realizzato con argilla, acqua e ingredienti minerali (ogni artigiano aveva la sua personale ricetta), distribuendo uno spesso strato della mistura sulla superficie della lama.

L’argilla fungeva da isolante termico: dopo aver scaldato la lama, l’acciaio rovente veniva immerso in acqua e la differenza di sensibilità termica delle varie sezioni d’acciaio faceva incurvare leggermente la lama, donando alla spada la sua forma caratteristica.

Quando l’acciaio con un contenuto di carbonio pari allo 0,7% viene scaldato oltre i 750°C, diventa austenite, un materiale che cambia rapidamente struttura (diventando martensite) se raffreddato rapidamente.

Hamon sulla lama, risultato della tempra differenziale
Hamon sulla lama, risultato della tempra differenziale

Le zone della lama non coperte dalla mistura di argilla diventavano dure e rigide (martensite) a causa del repentino abbassamento di temperatura, mentre le aree coperte diventano un mix di ferrite e perlite, materiali più morbidi della martensite. Questa differenza strutturale tra le diverse regioni della lama era alla base della durezza e della flessibilità della katana.

Il risultato collaterale di questa tempra con l’argilla (chiamata tsuchioki) era la creazione di un hamon, un motivo a linee ondulate o geometriche sul filo della lama che spesso veniva utilizzato come “firma” dal costruttore.

La rifinitura della katana

La forgiatura e la tempra della lama rappresentano solo metà del processo di creazione di una spada così particolare. Il passo successivo è la pulitura e l’affilatura, operazioni che vengono eseguite da esperti artigiani che si dedicano esclusivamente al perfezionamento di una lama grezza.

Gli artigiani che si dedicano all’affilatura non partecipano alla selezione del metallo e alla sua lavorazione, ma si limitano esclusivamente al perfezionamento di una lama grezza.

L’affilatura e la pulitura di una lama dura da una a tre settimane e viene eseguita utilizzando diverse pietre abrasive dalla grana progressivamente più fine; queste pietre, tramite un processo di micro-abrasione, doneranno alla spada la lucentezza di uno specchio.

La lucentezza non è un elemento puramente estetico: una superficie liscia aiuta la lama a scivolare dolcemente all’interno di un corpo umano, evitando la tipica suzione prodotta dai tessuti viventi perforati da un corpo estraneo.

Katana: storia e curiosità sulla più celebre spada giapponese

Per dare una vaga idea di cosa comporti il processo di pulitura, ecco una brevissima sintesi: è suddiviso in due parti, Shitaji (pulitura iniziale) e Shiage (pulitura finale). Lo Shitaji richiede almeno 10-12 ore di lavoro al giorno per 4-6 giorni; durante questa fase il corpo della lama viene lavorato per lucidarlo a specchio.

Lo Shiage, invece, consiste nell’affilatura estrema del filo della lama e richiede almeno 3 giorni di lavoro. Si procede con l’affilatura tramite frammenti di pietra abrasiva sempre più piccoli e dalla grana sempre più fine, abilmente tenuti tra le dita per farli strisciare lungo il filo tagliente della katana.

Come accennato all’inizio di questo post, descrivere nel dettaglio l’intero processo di costruzione di una katana potrebbe occupare interi volumi, per cui passiamo ad alcune curiosità poco note prese dal sito “THE JAPANESE SWORD GUIDE” (vedi elenco delle fonti in fondo al post)

Come custodire correttamente una katana

Se maneggiata con poca cura, una katana può danneggiarsi irreparabilmente. La lama dovrebbe essere custodita all’interno del suo fodero in posizione orizzontale, con il filo tagliente rivolto verso l’alto.

La lama deve essere pulita e oliata a intervalli regolari: l’umidità della pelle umana potrebbe compromettere l’integrità della spada causando la formazione di ruggine. Per evitare che arrugginisca o che venga aggredita dalla muffa, una katana deve essere ispezionata di frequente ed esposta all’aria.

L’olio utilizzato durante la manutenzione della lama di una katana si chiama “choji” ed è composto da una mistura di olio minerale e olio di chiodi di garofano in rapporto 10:1 o 100:1.

Come riconoscere una katana autentica
Katana custodita al Tokyo National Museum denominata "Ishida Masamune"
Katana custodita al Tokyo National Museum denominata “Ishida Masamune”

Il primo consiglio importante è su come distinguere una lama prodotta in serie (come quelle costruite durante la Seconda Guerra Mondiale) o una replica moderna da una di stampo antico realizzata con metodi tradizionali.

Le repliche moderne sono per lo più in alluminio, per cui basta una semplice calamita per capire se si tratta di una riproduzione a basso costo. Se riuscite a trovare un numero di serie, inoltre, significa che la lama è sicuramente moderna e prodotta tramite catena di montaggio automatizzata.

Il fatto che la lama sia in acciaio, tuttavia, non garantisce la sua autenticità. E’ possibile ottenere falsi di discreta qualità in modo relativamente facile, specialmente se vengono etichettati come “armi ninja”, anche se non esiste alcuna documentazione storica che testimoni l’utilizzo di spade diverse dalla katana da parte degli shinobi giapponesi.

Se la lama presenta una grana visibile (hada), è molto probabile che sia stata realizzata a mano. Alcune spade antiche potrebbero non mostrare alcuna grana per via dell’erosione, ma un’analisi al microscopio dovrebbe poter constatare la realtà.

Occorre verificare anche la presenza dell’hamon, il motivo decorativo sul filo della lama. Le repliche e i falsi hanno una linea di tempra generalmente rettilinea, invece delle linee curve degli esemplari autentici realizzati a mano.

L’esame del codolo non è sempre risolutivo: si tratta della parte della lama in cui vengono generalmente inseriti numeri di serie, firma dell’artigiano, o marchi militari. Durante la Seconda Guerra Mondiale, molte spade furono forgiate in serie con firme false per dare più prestigio alla lama; nei secoli passati, invece, sono state prodotte numerosissime lame autentiche prive di firma.

Il test della katana: tameshigiri
tameshigiri
Tameshigiri

Secondo la pratica tradizionale del tameshigiri (“prova di taglio”), le katane venivano messe alla prova dai più forti spadaccini del periodo Edo contro sacchi di riso, bambù, tappeti arrotolati o piccole lamine d’acciaio.

Il tameshigiri prevedeva tuttavia anche l’utilizzo di bersagli umani come cadaveri o criminali condannati a morte. Se la katana si dimostrava capace di tagliare carne e ossa di un prigioniero (la potenza di taglio veniva incisa sul codolo con iscrizioni tipo “5 corpi con un colpo di taglio sul fianco“), poteva essere considerata una lama degna di nota.

Oggi i test di taglio vengono condotti su tatami arrotolati al cui interno è stato inserito un palo di bambù verde per simulare la consistenza delle ossa umane. Una lama tale da meritarsi il titolo di katana tradizionale può tagliare due o più di questi bersagli con un solo fendente, se impugnata da un abile spadaccino.

Il test della katana: kabutowari

Un altro test di taglio, praticato anche in epoca moderna, è il kabutowari, il “taglio dell’elmo”. Si tratta di colpire un elmo tradizionale kabuto con una katana, e osservare le conseguenze per valutare l’efficacia e la resistenza della spada.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Contrariamente alla credenza comune che una katana possa facilmente tagliare un’armatura metallica, sono moltissimi gli esempi di kabutowari terminati con un catastrofico fallimento.

Decine, se non centinaia di spade si sono piegate o sono rimaste irrimediabilmente scalfite dal test contro un elmo kabuto; la produzione di acciaio secondo metodi tradizionali, specialmente in passato, non era affidabile quanto i metodi moderni e molte imperfezioni della lama tendevano a rimanere nascoste fino alla prova sul campo.

L’ultimo kabutowari noto risale al 1994, quando il maestro di spada Obata Toshishiro colpì un elmo originale del 1573-1602 con una katana shinken, lasciando uno squarcio di 13 centimetri sulla parte superiore dell’armatura senza nemmeno scalfire la superficie dell’arma.

Le katane Muramasa

La qualità di alcune katane è rimasta leggendaria, tanto da far nascere miti e superstizioni sul loro conto. Un esempio tra tutti è la spada chiamata “Nuvola Bianca”, realizzata tra il 1504 e il 1520 dal maestro Masatoshi della scuola Muramasa.

Nuvola Bianca è un perfetto esempio di lama Muramasa “maledetta” (leggi questo post sulla leggenda delle lame maledette Muramasa). Come recitava la superstizione del tempo, “una lama Muramasa ha sempre qualcosa di malvagio, e una volta che lascia il suo fodero non vi ritorna mai prima di aver visto il sangue“; una vera e propria lama demoniaca che scatenava un’incontrollabile sete di sangue nell’uomo che la impugnava.

La prova di taglio di Nuvola Bianca, effettuata nel 1659, può fornire qualche indizio sulle ragioni di una paura così irrazionale nei confronti di una semplice spada: attraversò due cadaveri come se fossero burro, fendendo inoltre quasi 30 centimetri di sabbia sotto di loro.

Katana
The Myth and the History of the Japanese Sword
THE JAPANESE SWORD GUID
Kabutowari
A sword named White Cloud

]]>
https://www.vitantica.net/2018/12/26/katana-storia-curiosita-spada-giapponese/feed/ 0
Seppuku e harakiri: il suicidio rituale giapponese https://www.vitantica.net/2018/12/14/seppuku-harakiri-suicidio-giappone/ https://www.vitantica.net/2018/12/14/seppuku-harakiri-suicidio-giappone/#respond Fri, 14 Dec 2018 00:10:03 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2878 Harakiri e Seppuku (“tagliare il ventre”) sono termini che definiscono una forma di suicidio rituale praticato in Giappone per almeno 800 anni. L’ordine di commettere seppuku, o la volontà di suicidarsi in modo onorevole, potevano giungere a seguito di sconfitte militari, di atti disonorevoli, per un grave errore commesso sul campo di battaglia o per un comportamento non opportuno nei confronti dei propri superiori.

Il suicidio rituale era un gesto relativamente comune in alcuni clan o circoli marziali anche nel caso di decesso naturale o violento del proprio maestro (pratica nota come oibara o tsuifuku), rendendo l’atto di togliersi la vita più che un gesto di espiazione, ma un rituale per dimostrare l’estrema venerazione nutrita nei confronti di una particolare personalità.

In altre circostanze, il rituale del seppuku è stato sfruttato dalle autorità come forma di controllo sociale. Un esempio può essere l’atto di stipulazione di un trattato di pace tra due parti in lotta: costringere al seppuku gli elementi più forti e rispettati di un clan sconfitto avrebbe indebolito ulteriormente il clan stesso, limitando e impedendo sul nascere l’insorgere di nuove ostilità.

Per i giapponesi, l’anima aveva la sua sede nel ventre. Questo giustifica simbolicamente il rituale del seppuku: con un taglio profondo nel ventre, si mostrava la volontà di punire e “pulire” la propria anima dalle colpe commesse, continuando a conservare il proprio onore anche dopo la morte.

Il seppuku fu per secoli il destino scelto dagli sconfitti in battaglia per ottenere una morte senza disonore. Piuttosto che soccombere al nemico, era preferibile uccidersi e non macchiarsi della colpa di venire catturato e fatto prigioniero; piuttosto che vivere con l’onta di una sconfitta, la morte era un’alternativa molto più appetibile che vedersi rinfacciare la propria inettitudine per il resto della vita.

Seppuku o harakiri?

Seppuku e harakiri fanno riferimento allo stesso rituale di suicidio. Il termine seppuku è più formale e utilizzato generalmente nella forma scritta, mentre la parola harakiri (o hara-kiri) è più comune nel linguaggio parlato.

Spesso il termine harakiri si riferisce (impropriamente) ad una forma non troppo ritualizzata di suicidio, codificata in svariate forme che variavano da clan a clan fino al XVII secolo; con la seppuku invece si fa riferimento alla complessa ritualità del cerimoniale codificato durante il periodo Edo.

Il rituale del seppuku
Ricostruzione di un seppuku in una foto del 1897.
Ricostruzione di un seppuku in una foto del 1897.

Per eseguire il seppuku, il condannato doveva sedere secondo la posizione tradizionale giapponese, poggiando il corpo sulle ginocchia, glutei sui talloni e punte dei piedi rivolte all’indietro; la posizione serviva ad evitare che il corpo cadesse sulla schiena dopo il decesso in una posizione che l’etichetta considerava poco onorevole.

Se il seppuku veniva svolto all’interno delle mura domestiche o a corte, la lama utilizzata era il tanto, un sottile pugnale indossato solitamente dietro alla schiena; in caso di seppuku sul campo di battaglia, spesso veniva utilizzata la wakizashi (spada compagna), una spada spesso definita come “il guardiano dell’onore”.

Preparazione al seppuku

Prima del rituale domestico previsto dall’etichetta del periodo Edo, il samurai effettuava un bagno, vestiva abiti bianchi (il bianco è il colore del lutto in Giappone) e mangiava il suo ultimo pasto, ciò che più gli era gradito. La consuetudine prevedeva che il samurai componesse un poema prima di dedicarsi al rituale suicida, sedendo di fronte alla sua spada.

All’inizio del rituale, il samurai sedeva di fronte ai testimoni scelti per assistere alla cerimonia; apriva il suo kimono bianco, prendeva il pugnale predisposto per il suicidio rituale afferrandone una porzione di lama avvolta da un panno bianco, e si infliggeva la ferita mortale.

Seppuku o harakiri

Il kaishakunin

Sebbene il gesto del seppuku fosse un atto volontario e individuale, una figura fondamentale era quella del kaishakunin, il “decapitatore”, codificato come figura standard del rituale verso la metà del XVII secolo.

Una volta eseguita l’incisione nell’addome, incisione che andava da sinistra verso destra, il kaishakunin recideva con un colpo netto la colonna vertebrale, avendo però cura che la metà del collo in corrispondenza della trachea rimanesse attaccata al resto del corpo, in modo tale che la testa potesse rimanere in piedi e dare una fine dignitosa al suo proprietario.

Il decapitatore era spesso un amico fidato, oltre che un abile maestro di spada; questo non solo mostra l’importanza del suicidio rituale per un samurai, ma anche il rispetto che (generalmente) il suicida provava nei confronti del kaishakunin prescelto.

Se il colpo netto non avesse reciso correttamente il collo del samurai, il volto avrebbe conservato una smorfia di dolore e la testa sarebbe caduta a terra, rappresentando una morte per nulla onorevole. Un amico fidato e rispettoso, inoltre, non avrebbe mai lasciato soffrire inutilmente il suicida: quando viene perforato o lacerato, l’addome è una delle zone del corpo umano che provoca più dolore.

Sul campo di battaglia, era molto più frequente che il decapitatore non fosse un amico o il proprio secondo, ma il nemico stesso. Nel corso dei secoli non fu affatto raro che il vincitore si offrisse come kaishakunin per un nemico particolarmente coraggioso, concedendo allo sconfitto una morte onorevole.

Il seppuku nella storia giapponese
L'harakiri di Ōishi Kuranosuke Yoshio
L’harakiri di Ōishi Kuranosuke Yoshio
Il suicidio rituale delle origini

Il complesso rituale del seppuku non è stato codificato e uniformato fino al XVII secolo. Nei periodi precedenti, la figura del kaishakunin non esisteva, il rito era molto più doloroso e sanguinolento e aveva molte varianti.

In assenza di un decapitatore, molti samurai si tagliavano la gola dopo aver inciso il ventre, o si lanciavano in avanti con la spada puntata sul petto: preferivano di gran lunga morire in fretta che soffrire atrocemente e morire nell’arco di svariati minuti per il solo taglio ventrale.

Fu solo con l’inizio del periodo Edo e della relativa pace interna del XVII secolo che si iniziò a codificare precisamente il suicidio rituale aggiungendo una serie di procedure alternative.

La codifica del rituale del seppuku

I samurai più vecchi, ad esempio, eseguivano il seppuku raggiungendo un oggetto simbolico che avrebbe dato il via al kaishakunin; fu previsto, per i samurai più “hardcore” o dalle colpe più gravi, un taglio a croce (jūmonji giri) in assenza di un decapitatore.

Il primo seppuku documentato risale al 1180, periodo in cui i Minamoto, clan con un potenziale accesso al trono imperiale, si scontrò contro i Taira, che reclamava il diritto a imporre un loro candidato imperatore. Minamoto no Yorimasa, generale dei Minamoto, decise di fare seppuku dopo la sconfitta di Uji.

Qualche anno dopo, al termine della battaglia di Dan-no-ura (1185), fu Taira no Tomomori, generale dei Taira ed esperto di battaglie navali, a commettere suicidio accompagnato da molti dei membri del suo clan, ma non seguendo il rituale più comune: si legò un’ ancora ai piedi e saltò in mare, lasciandosi trasportare sul fondale.

I 47 Ronin: seppuku per mantenere l’onore e la legge

Seppuku o harakiri

Un celebre episodio di seppuku, avvenuto all’inizio del XVIII° secolo, è in grado di dimostrare cosa prevedeva il codice del suicidio rituale in caso di disobbedienza. In quello che viene definito “Incidente di Genroku Ako“, 47 samurai, diventati ronin a seguito della morte del proprio padrone (Asano Naganori) per una grave violazione dell’etichetta di corte, vendicarono il decesso del loro daimyo benché lo shogun avesse loro ordinato di non dedicarsi alla vendetta.

La pianificazione della loro vendetta durò ben due anni: si organizzarono in segreto per assediare il castello di Kira Yoshinaka, maestro di protocollo dello shogun e colpevole di aver lanciato l’insulto che forzò la mano di Asano costringendolo, per preservare il suo orgoglio, ad attaccare Kira a mano armata, ferendolo al volto.

Dopo anni di preparativi i 47 ronin, vestiti da pompieri, si infiltrarono nel castello per uccidere Kira Yoshinaka; ne ebbe origine una battaglia che portò all’uccisione del maestro di protocollo, nascosto nella legnaia e non particolarmente intenzionato a commettere seppuku.

L’episodio terminò con i ronin che si consegnano spontaneamente alle autorità, rimettendosi al giudizio dello stesso shogun che aveva loro ordinato di non dedicarsi alla vendetta.

Lo shogun, dopo qualche esitazione dovuta al supporto popolare goduto dai ronin, ordinò loro di commettere seppuku, lasciando in vita solo Kichiemon Terasaka per fare in modo che nessuno dimenticasse la vicenda, i suoi protagonisti e il suo epilogo.

Please accept YouTube cookies to play this video. By accepting you will be accessing content from YouTube, a service provided by an external third party.

YouTube privacy policy

If you accept this notice, your choice will be saved and the page will refresh.

Seppuku
Junshi

]]>
https://www.vitantica.net/2018/12/14/seppuku-harakiri-suicidio-giappone/feed/ 0