cucina – VitAntica https://www.vitantica.net Vita antica, preindustriale e primitiva Thu, 01 Feb 2024 15:10:35 +0000 it-IT hourly 1 Corso di cucina medievale: “Eat Medieval: A Taste of the Past” https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/ https://www.vitantica.net/2020/10/26/corso-di-cucina-medievale-eat-medieval-a-taste-of-the-past/#respond Mon, 26 Oct 2020 00:15:38 +0000 http://www.vitantica.net/?p=5013 A partire dal 2 novembre 2020 la Blackfriars’ Cookery School, in collaborazione con il Durham University’s Institute of Medieval and Early Modern Studies, trasmetterà una serie di corsi culinari a tema medievale, mostrando la preparazione di alcune antiche ricette europee risalenti al XII secolo.

Durante il corso interattivo, della durata di 5 giorni, verranno mostrate 15 ricette medievali raccolte dai monaci del Durham Cathedral Priory, un priorato benedettino fondato nel 1083 come monastero cattolico. Chef professionisti spiegheranno passo passo le tecniche di cucina medievale, accompagnati dalla storia di queste tecniche e da alcune informazioni poco note sulla cucina del XII secolo.

“Sono eccitato ed estasiato da questa nuova partnership” afferma Giles Gasper, professore di Storia Medievale alla Durham University e co-presentatore del corso. “Il cibo medievale apparteneva ad una delle più grandi cucine del mondo: era sofisticato e rappresentava una stupenda miscela di ingredienti locali e spezie provenienti dalle carovane che avevano attraversato le steppe, l’Oceano Indiano e il Mediterraneo.

“Abbiamo lavorato con Giles ed il suo team della Durham University per oltre una decade” dice Andy Hook, proprietario del Blackfriars Restaurant, “esplorando il cibo medievale e riportandolo in vita all’interno di un ristorante moderno attraverso corsi di cucina, banchetti e lezioni”.

EAT MEDIEVAL: A TASTE OF THE PAST | 2-6 NOVEMBER 2020

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I cristalli di zucchero della dinastia Tang https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/ https://www.vitantica.net/2020/07/14/cristalli-zucchero-dinastia-tang/#respond Tue, 14 Jul 2020 00:14:43 +0000 http://www.vitantica.net/?p=4919 Lo zucchero cristallizzato (chiamato comunemente “rock candy” o “rock sugar” in inglese) è un composto cristallizzato di zucchero usato comunemente per dolcificare cibi e bevande. I cristalli di zucchero divennero un ingrediente particolarmente comune nella cucina cinese almeno mille anni fa: veniva impiegato per dolcificare zuppe e tisane, o per marinare la carne.

Nella Cina di circa un millennio fa lo zucchero cristallizzato (chiamato “ghiaccio di zucchero”) era considerato un bene di lusso, nonostante la predisposizione climatica di alcune regioni asiatiche meridionali, più che adatte alla coltivazione di canna da zucchero. Solo alcuni distretti cinesi erano in grado di produrre zucchero cristallizzato di qualità, come racconta lo Tangshuang pu (“Manuale dello zucchero cristallizzato”), l’opera di uno dei più prolifici scrittori e poeti del medioevo cinese.

Costoso regalo

La lavorazione della canna da zucchero, nata in India circa 2.000 anni fa, prevedeva un procedimento relativamente semplice ma che richiedeva pazienza e forza lavoro: dopo aver raccolto e spremuto le canne da zucchero, il liquido zuccherino veniva mescolato ad acqua bollente creando una soluzione zuccherina supersatura, lasciando poi ridurre la soluzione tramite il calore fino ad ottenere cristalli di zucchero.

Le tecniche di lavorazione dei cristalli di zucchero giunsero in Cina intorno al VII secolo d.C. dall’India: prima di allora lo “zucchero sabbioso” (sharkara), composto da minuscoli cristalli, veniva importato dal subcontinente indiano dopo lunghe e costose spedizioni commerciali.  La letteratura sanscrita risalente al periodo compreso tra il 1500 e il 500 a.C. fornisce le prime prove documentali sulla coltivazione della canna da zucchero e sulla lavorazione dei cristalli.

Wang Zhuo, morto intorno all’anno 1160, non si limita a mettere su carta istruzioni pratiche per la produzione dello zucchero, dalla coltivazione della canna alla procedura di cristallizzazione, ma fornisce anche un quadro storico dei cristalli di zucchero cinesi.

E’ un fatto universale che un prodotto raro e difficile da ottenere sia visto come un tesoro” sostiene Wang Zhuo nel Tangshuang pu. “Per questo motivo le castagne, le pere, le arance, i litchi e le prugne, prodotti che il mondo non produrrà mai a sufficienza, sono considerati molto preziosi“.

Lo zucchero veniva quindi prodotto in quantità sufficientemente limitate da essere considerato un bene di lusso. La cristallizzazione dello zucchero forniva diversi vantaggi commerciali: i cristalli di zucchero erano facili da trasportare e da immagazzinare, e potevano sopravvivere a lunghi viaggi.

Lo zucchero cristallizzato era anche considerato un regalo appropriato da inviare ad amici e parenti distanti: numerose lettere di ringraziamento citano i cristalli di zucchero come dono da parte di congiunti distanti, come si può leggere tra le righe scritte da Huang Tingjian durante il suo esilio:

Il tuo ghiaccio di zucchero inviato da lontano
supera il cristallo di sale del maestro Cui
nella sua bontà.

Eccellenze dello zucchero

Come capita per numerose attività artigianali o industriali, anche nel caso dello zucchero nacquero diversi centri d’eccellenza. I migliori di questi centri produttivi erano obbligati per legge ad inviare ogni anno un tributo in zucchero di alta qualità alla corte centrale.

Ma la produzione di zucchero cristallizzato aveva un limite: richieste eccessive potevano mettere in ginocchio intere economie locali. Wang Zhuo cita un caso verificatosi nella regione oggi chiamata Sichuan, la cui produzione di zucchero andò in crisi quando il governo centrale ordinò la produzione di diverse tonnellate di zucchero cristallizzato; non riuscendo a competere con le imprese più grandi, i produttori di ghiaccio di zucchero più piccoli finirono sul lastrico.

Al tempo di Wang Zhuo, il Suining (Sichuan) era la regione più rinomata per la produzione di ghiaccio di zucchero. Anche altre regioni producevano cristalli zuccherini, ma di qualità apparentemente molto inferiore, nonostante l’abbondante disponibilità di canne da zucchero di eccellente qualità.

“Lo zucchero cristallizzato del Suining è il migliore” afferma Zhuo. “Quello prodotto dalle altre quattro regioni che distribuiscono il ghiaccio di zucchero è molto sottile e fragile. E’ chiaro nel colore e senza profondità di sapore, e può essere paragonato al peggior zucchero di Suining. Le canne da zucchero che circondano queste regioni sono di alta qualità, ma il loro zucchero non è rinomato”.

Dalle parole dell’autore dello Tangshuang pu, si deduce che la tradizione di ghiaccio di zucchero del Sichuan poteva vantare un processo di caramellizzazione particolare che rendeva i cristalli incredibilmente saporiti e apprezzati dai palati cinesi. La limitata disponibilità di cristalli di zucchero di ottima fattura non era quindi un problema legato alla qualità della materia prima, ma alle tecniche di lavorazione delle canne da zucchero.

Come si producevano i cristalli di zucchero?

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La canna da zucchero fu inizialmente impiegata in Cina per produrre uno sciroppo zuccherino da mescolare a bevande calde o fredde. Dopo l’introduzione delle prime tecniche di lavorazione dello zucchero, fu possibile trasformare lo sciroppo di canna in blocchi solidi (shi mi) o piccoli cristalli (sha tang).

La produzione di ghiaccio di zucchero richiedeva numerose fasi che Wang Zhuo affronta nel dettaglio. Tra le quattro varietà di canna da zucchero presenti in Cina, solo due erano adatte alla produzione di cristalli. Le canne venivano piantate durante il secondo mese del calendario lunare, e raccolte durante il decimo mese; i terreni adibiti alla coltura di canne subivano una rotazione biennale per dare modo al suolo di arricchirsi nuovamente di nutrienti.

Dopo aver raccolto e tagliato le canne (procedimento fatto interamente a mano), queste venivano schiacciate e spremute per estrarne il succo: impiegando una macina e un bue si potevano processare svariati quintali di canne da zucchero ogni giorno. I residui della spremitura delle canne da zucchero venivano impiegati per la produzione di aceto.

In tempi moderni, da una singola canna da zucchero si possono estrarre 100-150 grammi di succo zuccherino, ma probabilmente nella Cina medievale la capacità di estrazione era inferiore. Il succo estratto dalle canne veniva quindi mescolato ad acqua e lasciato a bollire per svariate ore, fino ad ottenere grossi cristalli di zucchero.

L’umidità tendeva a rovinare facilmente lo zucchero cristallizzato, specialmente nel trasporto su lunghe distanze. Per evitare di rovinare un carico di cristalli di zucchero, sul fondo delle urne che lo contenevano veniva depositato uno strato di cereali coperto da un disco di bambù.

Il disco veniva quindi rivestito di corteccia di bambù, dura e impermeabile, prima di riversare lo zucchero nel contenitore. Una volta riempita, l’urna veniva sigillata con uno strato di cotone prima di applicare un coperchio.

A Tang dynasty monk and his secret candy recipe
Sugarcane and Sugar

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Imu, il forno tradizionale hawaiano https://www.vitantica.net/2019/04/29/imu-forno-tradizionale-hawaiano/ https://www.vitantica.net/2019/04/29/imu-forno-tradizionale-hawaiano/#respond Mon, 29 Apr 2019 00:10:16 +0000 https://www.vitantica.net/?p=4028 Chiunque abbia partecipato ad un luau (festa) hawaiano contemporaneo avrà trovato il maiale kalua come elemento fondamentale del menu. Tradizionalmente, il maiale viene cotto in una fossa interrata e servito all’interno di cestini intrecciati fatti di fronde di cocco, o su grandi foglie di banana.

Cottura a vapore tradizionale

Con il termine kālua si identifica un metodo di cottura tradizionale hawaiano che utilizza un imu, un forno scavato nel terreno. La parola kālua, che letteralmente significa “cucinare in un forno interrato”, può anche essere impiegata per descrivere il cibo cucinato seguendo questo metodo, come il maiale kālua comunemente servito nelle feste tradizionali (luau).

In tutta la Polinesia, la Melanesia, la Micronesia e le Americhe, i tradizionali forni interrati sono stati utilizzati per cuocere il cibo sfruttando il vapore. Gli hawaiani usavano un forno a pozzo per cuocere a vapore maiali interi, pane, banane, patate dolci, radici di taro (Colocasia esculenta), pollo e pesce.

Preparazione e accensione del forno hawaiano

Per costruire un imu occorre scavare nel terreno una buca circolare, profonda circa mezzo metro e con lati inclinati. Il diametro e la profondità della fossa saranno proporzionali alla quantità di cibo da cuocere. Il pozzo deve essere abbastanza grande da contenere non solo il cibo, ma anche rocce calde e vegetazione a sufficienza da generare vapore.

La terra dello scavo deve essere conservata: successivamente sarà usata per coprire l’imu e dare inizio al processo di cottura. Dopo aver scavato la buca occorre raccogliere il necessario per accendere un fuoco, come ramoscelli e qualsiasi altro materiale possa costituire un’esca.

Il materiale di accensione va posizionato al centro del pozzo, in modo simile a quello utilizzato per la realizzazione di un fuoco da campo. La legna più grande (preferibilmente legno denso e duro, che brucia più lentamente) viene accatastata attorno all’esca, facendo attenzione a selezionare legname che non possa conferire un sapore sgradevole al cibo.

Le pietre che effettueranno la cottura devono essere delle dimensioni di un pugno chiuso, non bagnate o umide (potrebbero esplodere) e dovranno essere posizionate sopra la catasta di legname; le pietre di basalto sembrano essere ideali per la loro capacità di accumulare e rilasciare calore e non frantumarsi facilmente con il cambio di temperatura.

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Una volta accesa la catasta centrale, il fuoco riscalderà le pareti della fossa e le pietre. Mentre il legno si tramuta lentamente in carbone, le rocce cadranno sulle braci, iniziando ad accumulare lentamente calore. Questo procedimento dura da 1 a 3 ore: occorre attendere che le pietre accumulino più calore possibile, disponendole uniformemente sul fondo del pozzo al termine dela fase di riscaldamento.

Raccolta di materiale vegetale

Poiché il processo di cottura richiede vapore e non semplice calore, sono necessari materiali vegetali verdi in grado di saturare il pozzo con il vapore che sprigioneranno.

Gli hawaiani utilizzavano erba e foglie: alcune delle piante impiegate tradizionalmente erano monconi di banana, foglie di ti, erba di honohono, foglie di banano e foglie di palma di cocco. Il termine usato oggi per descrivere il materiale vegetale verde e il suo uso è hali’i.

La selezione del materiale vegetale e la sua preparazione è una fase importante per garantire la giusta cottura degli alimenti. Se si usano i monconi di banano sarà necessario tagliarli in sezioni più piccole del diametro della fossa. Le sezioni sono tagliate longitudinalmente, a seconda delle dimensioni del tronco. I ceppi tagliati vengono quindi battuti con una pietra per rompere le fibre e rilasciare più facilmente l’umidità in esse contenuta.

Stratificazione e cottura

Quando le pietre calde sono pronte, è il momento di stratificare l’imu posizionando sullo strato più basso il materiale vegetale, per poi collocare il cibo sopra di esso. Il primo strato di hali’i è posto direttamente sopra le rocce calde per evitare che il cibo si bruci e per rilasciare grandi quantità di vapore.

Un secondo strato di hali’i viene posizionato sul primo strato. Questo secondo strato è importante, in quanto a diretto contatto con il cibo: aggiungerà sapore e aroma agli alimenti. Il cibo viene quindi adagiato sopra il materiale vegetale.

Se si sta cucinando un maiale intero, alcune pietre calde dovranno essere collocate anche all’interno della carcassa per assicurare una cottura uniforme. Un terzo strato di hali’i andrà a coprire il cibo: il metodo tradizionale prevede l’impiego di foglie giovani e intere di banana.

Imu, il forno tradizionale hawaiano

Il materiale di copertura del pozzo (come vecchi tappeti lauhala o tessuti tapa) viene quindi posato sopra l’imu. Il materiale di copertura deve estendersi oltre il diametro dell’apertura del pozzo: così facendo si eviterà la caduta di terra nell’imu quando il cibo verrà dissotterrato. L’ultimo strato di copertura è costituito da terra, spalata in modo uniforme per coprire interamente il pozzo ed evitare la fuoriuscita di vapore.

Il tempo necessario per la cottura dipende dal calore dell’ imu, dallo spessore dell’hali’i, dal tipo e dalla massa di cibo da cuocere. Un maiale intero di grandi dimensioni, in un buon imu caldo, può richiedere da 6 a 8 ore di tempo. A cottura ultimata, bisogna sollevare con attenzione il materiale di copertura ed evitare di sporcare l’interno dell’imu.

Per coloro che non hanno accesso a nessuna delle piante tradizionali hawaiane, è possibile utilizzare dei sostituti: qualsiasi pianta che possa fornire vapore, non renda sgradevole il sapore del cibo e non sia tossica, come lattuga, foglie di cavolo, crescione o foglie di pioppo.

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Imu – Hawaiian Underground Oven

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Idromele: storia e produzione nell’antichità https://www.vitantica.net/2019/01/07/idromele-storia-e-produzione-nellantichita/ https://www.vitantica.net/2019/01/07/idromele-storia-e-produzione-nellantichita/#respond Mon, 07 Jan 2019 00:20:34 +0000 https://www.vitantica.net/?p=3312 Considerato da alcuni popoli del mondo antico come la “bevanda degli dei”, l’ idromele è un liquore prodotto a partire dalla fermentazione del miele e che nel corso della storia ha riscosso un successo che ha ben pochi precedenti tra le bevande alcoliche.

Storia dell’ idromele
L’origine dell’idromele

Definire con esattezza l’origine dell’idromele è un compito difficile, ma è possibile che la formula sia stata scoperta per puro caso dai primi cacciatori-raccoglitori africani circa 20.000 anni fa.

Il miele costituiva un’importante fonte di zuccheri ed energie e i nostri antenati nomadi non si facevano mai sfuggire l’occasione di prelevarlo da alveari selvatici (leggi in questo post come veniva estratto il miele nei secoli passati).

Gli alveari selvatici si trovano spesso all’interno di cavità degli alberi (in Africa capita specialmente con baobab e miombo), cavità che tendono ad allagarsi durante la stagione umida.

A contatto con acqua e lieviti presenti in natura, il miele inizia un processo di fermentazione producendo piccole quantità di alcool; l’inebriamento indotto dal miele fermentato potrebbe aver spinto i  cacciatori-raccoglitori delle origini ad elaborare la prima, rudimentale ricetta dell’idromele.

Bevanda degli eroi

Le prime testimonianze archeologiche sulla produzione di idromele risalgono ad oltre 9.000 anni fa: frammenti di vasi di ceramica rinvenuti in Cina contengono tracce chimiche di miele, riso e composti organici coerenti con il processo di fermentazione.

Anche l’India si distinse per la produzione di idromele: la più antica descrizione della bevanda è contenuta nel Rigveda, uno dei libri sacri della religione vedica datato a 3.700-3.100 anni fa.

In Europa, i più antichi campioni di idromele risalgono a quasi 5.000 anni fa: la cultura del vaso campaniforme (Bell Beaker), fiorita all’inizio dell’Età del Bronzo, produceva in tutta Europa bevande alcoliche a base di miele che, nei secoli successivi, ogni popolazione del continente elaborò per creare una delle svariate versioni dell’ idromele.

Nell’ età dell’oro della mitologia greca, l’idromele era la bevanda preferita degli eroi. Molti ricercatori hanno identificato l’ ambrosia, la bevanda degli dei, con l’idromele; alcuni hanno anche proposto l’ipotesi che l’ambrosia fosse una bevanda realmente esistita creata con il miele prodotto da api che visitavano piante di cannabis.

Aristotele discusse le proprietà dell’idromele nella sua opera Meteorologica, ritenendolo un tonico in grado di restituire vigore e virilità agli uomini; tre secoli dopo, Plinio il Vecchio è il primo a definire una distinzione tra vino addolcito con miele e “vino di miele”.

"meodu scencu" (coppa di idromele) nel poema Beowulf
“meodu scencu” (coppa di idromele) nel poema Beowulf
Idromele in Nord Europa

Una “sala dell’idromele”, presente nel forte di Din Eidyn nei pressi di Edimburgo, viene descritta nel poema Y Gododdin e avrebbe ospitato il poeta Aneirin, un contemporaneo del celebre bardo Taliesin che compose, intorno al 550 a.C., la “canzone dell’ idromele“.

Beowulf, protagonista di uno dei più importanti lavori letterari dell’antica letteratura inglese, beveva idromele e come lui tutti gli eroi danesi e celtici.

In alcune regioni d’Europa era tradizione regalare ad una coppia appena sposata una quantità di idromele sufficiente ad un mese lunare di bevute; da questa tradizione ebbe origine l’espressione “luna di miele“.

La bevanda veniva regalata per favorire il concepimento di un figlio, dato che le si attribuivano doti ricostituenti e il potere di inebriare i sensi e semplificare il corteggiamento.

La Polonia ha una lunghissima tradizione legata all’idromele: durante il Medioevo vaste regioni polacche erano ricoperte da foreste primarie che, secondo il monaco del XII secolo Gallus Anonymus, autore della Cronaca polacca, erano ricche di alveari selvatici.

Nel 996 il mercante Ibrahim ibn Yaqub scriveva:

“a parte il cibo, la carne e la terra da arare, il regno di Mieszko I è ricco d’ idromele, che è il modo in cui gli Slavi chiamano i vini e le bevande intossicanti”

Nel XV secolo, invece, il diplomatico veneziano Ambrogio Contarini scrisse:

“non avendo vino, i Polacchi producono una bevanda con il miele, una bevanda che intossica le persone molto più del vino”

Tra il XVII e il XVIII secolo in Polonia vengono trascritte non solo molte ricette per la produzione di idromele, ma anche le differenti varianti polacche di questa bevanda: czwórniak, trójniak, dwójniak e półtorak.

L’idromele nella cultura norrena

Sulle coste del Mediterraneo la produzione di idromele iniziò a ridursi non appena si riuscì a coltivare su vasta scala la vite per la produzione di vino, più semplice da creare in grandi quantità.

Nelle regioni più settentrionali d’Europa, dove la coltivazione della vite era difficile o la disponibilità di frutta era limitata, l’idromele continuò a godere di una vastissima popolarità.

La cultura nordeuropea precristiana attribuiva un’ enorme importanza all’ idromele: si trovano riferimenti a questa bevanda alcolica sia nella letteratura scandinava sia nella mitologia norrena.

Sotto le sembianze di un'aquila, Odino ruba l'idromele della poesia dal gigante (jötunn) Suttungr. Raffigurazione presente nell' Eddahandskrift
Sotto le sembianze di un’aquila, Odino ruba l’idromele della poesia dal gigante (jötunn) Suttungr. Raffigurazione presente nell’ Eddahandskrift
Idromele magico e sala dell’idromele

L’idromele era la bevanda preferita di Odino (che rubò ai giganti il sacro idromele che gli donò infinita conoscenza e l’arte della poesia) e di altre creature soprannaturali, oltre ad essere l’alcolico che i guerrieri giunti nel Valhalla bevono dalle mammelle della capra Heidrunn dopo un’intera giornata trascorsa a combattere.

Un altro episodio mitologico legato all’idromele è quello di Kvasir, un esponente del popolo mitologico degli Asi e ritenuto l’essere soprannaturale più saggio mai esistito nell’universo.

Per appropriarsi della sua saggezza, due nani, Fjalarr e Galarr, lo assassinarono per estrarne il sangue e mescolarlo con miele; dal miscuglio fermentato si generò un magico idromele che donava straordinarie doti da poeta a chiunque lo bevesse.

Nelle “sale dell’idromele” norrene (chiamate sal o salr) si svolgevano banchetti, celebrazioni religiose e feste per i trionfi in battaglia bevendo idromele e cantando le gesta degli eroi passati e contemporanei.

All’interno delle sale dell’idromele si stipulavano alleanze o si ordivano intrighi: nella saga di Ynglinga, il poeta islandese Snorri Sturluson spiega come, nell’ VIII secolo, il re svedese Ingjald fece costruire un’enorme sala dell’idromele con il solo scopo di ardere vivi tutti i suoi vassalli addormentati e intorpiditi dall’alcool.

Come veniva prodotto l’idromele
Le prime ricette dell’idromele

Una delle primissime ricette dell’idromele fu redatta in forma scritta dal naturalista romano Columella nel 60 d.C.. Nella sua opera De re rustica, Columella scrive:

Prendere acqua piovana rimasta a decantare per diversi anni e mescolare un sextarius (circa mezzo litro) di acqua con una libbra romana di miele. Per un idromele più leggero, mescolare un sextarius d’acqua con nove once di miele. Il miscuglio deve essere esposto al sole per 40 giorni per poi essere lasciato vicino al fuoco. Se non si dispone di acqua piovana, far bollire acqua di sorgente.

La più antica ricetta dell’idromele polacco fu trascritta nel 1567 dallo svedese Olaus Magnus, che aveva ottenuto la formula dagli abitanti della città di Gniezno: secondo la ricetta, occorre mescolare 10 libbre di miele a 40 libbre d’acqua e far bollire la mistura, insaporendola con luppolo e lasciandola fermentare dopo aver aggiunto lievito di birra.

Lavaggio degli alveari

L’idromele è sostanzialmente un sottoprodotto dell’estrazione del miele da un alveare. Prima dell’estrazione meccanizzata, il miele veniva prelevato schiacciando gli alveari per ottenere una poltiglia di cera e zuccheri semiliquidi; per separare il miele dalla cera, la poltiglia veniva lavata con acqua calda.

Ciò che rimaneva era cera, miele e una certa quantità di acqua zuccherina che, se lasciata libera di fermentare per qualche settimana, si arricchiva di alcool e acquisiva il sapore tipico dell’idromele.

Fermentazione

La fermentazione dell’acqua arricchita di miele poteva essere spontanea (causata da lieviti e batteri presenti nel miele stesso) o indotta introducendo lieviti e batteri selvatici, che tuttavia producevano risultati inconsistenti.

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Con questo procedimento rudimentale ma efficace si poteva ottenere idromele dal contenuto alcolico che oscillava tra il 3,5 e il 20%del volume totale.

Durante o dopo la fermentazione potevano essere aggiunte spezie o frutta per creare sapori caratteristici: chiodi di garofano, cannella, noce moscata, lavanda, camomilla o luppolo sono solo alcuni degli additivi che caratterizzano l’incredibile variabilità regionale dell’idromele.

Metheglin, melomel e braggot

Il miele che contiene spezie viene definito metheglin, mentre il miele a cui è stata aggiunta frutta (come fragole o lamponi) viene chiamato melomel e veniva tradizionalmente impiegato per conservare il cibo durante l’inverno. Quello prodotto con l’uso di cereali, infine, viene definito braggot e ha il sapore tipico del frumento o dell’orzo maltato aggiunti durante il processo di fermentazione.

Ricetta per l’idromele (da Maxbeer.org)

Ingredienti

  • Miele: 1.9 Kg
  • Lievito di chardonnay (o bianco similare):1 bustina
  • Nutriente per lievito: 1/2 di cucchiaino*
  • Acid blend (miscela di acidi o acido lattico o citrico):1/3 di cucchiaino*
  • Acqua q.b. (preferibilmente oligominerale in bottiglia)
    *seguire dosi minime consigliate

Istruzioni

  • Dissolvere il miele nella mistura di acidi, nutrienti del lievito e 1 gallone d’acqua a temperatura ambiente
  • Reidratare il lievito
  • Aggiungere il metabisolfito di sodio
  • Sigillare e lasciar fermentare per 3-5 settimane fino al rallentamento della fermentazione
  • Rimuovere i sedimenti e lasciar depositare per sei mesi

The Past, Present and Future of Mead
Mead

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Consigli in cucina dal X secolo https://www.vitantica.net/2018/11/14/consigli-in-cucina-dal-x-secolo/ https://www.vitantica.net/2018/11/14/consigli-in-cucina-dal-x-secolo/#respond Wed, 14 Nov 2018 00:10:44 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2457 Il “Libro dei Piatti” (Kitab al-Tabikh) è uno dei libri di cucina medievali più interessanti mai scoperti e tradotti. Scritto da Ibn Sayyar al-Warraq nel X secolo, è il più antico libro arabo di cucina e copre un vasto numero di elementi della tavola, dalle buone maniere ai benefici di alcuni cibi o bevande.

Il libro di ricette arabo contiene informazioni sugli utensili necessari in cucina, istruzioni sull’utilizzo e la conservazione delle spezie più comuni, consigli per gli alimenti da somministrare ad anziani e bambini, numerosi poemi sul cibo e, ovviamente, un’enorme collezione di ricette.

L’opera comprende oltre 600 ricette suddivise in 132 capitoli, ricette che spaziano dalla carne alla birra a base di miele; l’opera è corredata anche da una serie consigli pratici per la cucina, alcuni riportati qui sotto.

Come evitare che il cibo vada a male

Tagliare cipolle, porri, carote, melanzane e altre verdure con lo stesso coltello usato per tagliare la carne farà andare a male il piatto, è bene saperlo. Occorre avere un coltello speciale per tagliare la carne e uno per tagliare le verdure.

Pentole maleodoranti

Se le pentole puzzano e sono ricoperte di grasso, buttare al loro interno una o due noci e lasciarle in pentola per qualche tempo. Le noci assorbiranno gli odori grassi. Per dimostrarlo, prendete una delle noci e apritela. Il suo odore sarà così ripugnante da risultare intollerabile.

La pentola del porridge

Il porridge è cotto in pentole di rame ricoperte da stagno perché questi cibi vengono generalmente mescolati con forza e a lungo fino a farli addensare. Le pentole di pietra non resisterebbero mai ad un trattamento simile dato che potrebbero rompersi.

Conservare le spezie

I barattoli di vetro sono l’ideale per conservare le spezie, subito dopo vengono i contenitori di vimini. I peggiori contenitori per le spezie sono i sacchetti di pelle.

Cibo bruciato

Si può eliminare l’odore di ogni cibo bruciato piazzando urina nella pentola. Tuttavia, un metodo migliore per eliminare gli odori è versare il contenuto della pentola bruciata in un altro contenitore e poi raschiare il cibo bruciato. Questo viene fatto solo in casi estremi.

Le uova migliori

Le uova migliori sono quelle di gallina o di fagiano. Poi vengono quelle d’anatra, ma forniscono meno nutrienti e sono di scarsa qualità. Per quanto riguarda le uova di rondine o di altri uccelli, è meglio assumerle come medicinali.

Le uova, bollite e strapazzate, sono nutrienti ma lente da digerire e impiegano molto tempo per attraversare il sistema digestivo. Le uova poco cotte alimentano l’organismo in modo molto veloce. Le uova cotte in stufati sono meno dannose di quelle bollite e più veloci da digerire.

Cuocere le verdure

Quando si prepara la verdura, scaldare l’acqua in una pentola e lasciarla arrivare a ebollizione. Prendere le verdure, legarle in fasci e aggiungerle all’acqua calda. Ci dovrebbe essere acqua a sufficienza per coprire le verdure. Mantenere alta la fiamma sotto la pentola. Quando si aggiungono le verdure, non lasciar morire la fiamma, anzi, alimentarla con altro combustibile.

Quando le verdure stanno bollendo, coprire la pentola con un coperchio altrimenti diventeranno giallognole. Non aggiungere acqua fredda mentre stanno bollendo altrimenti ingialliranno. Una volta cotte le verdure, toglierle dalla pentola e disporle su un piatto.

Riso al latte

Lavare il riso e lasciarlo a bagno nel latte per tutta la notte. Versare acqua in una grande pentola di rame, la quantità dovrebbe essere sufficiente a coprire il riso, o poco meno. Aggiungere grasso all’acqua: può essere burro chiarificato da latte di vacca, olio di mandorle o di sesamo. Lasciar bollire.

Aggiungere il riso e la quantità desiderata di miele. Attendere fino a quando sarà quasi cotto e aggiungere gradualmente il latte fino a cottura completa. Rimuovere la pentola dal fuoco.
Il piatto diventerebbe ancora più delizioso se si sostituisse il miele con zucchero bianco. Occorre immergere il riso in latte appena munto e può essere fatto solo durante notti fredde.

Book Review of “Ibn Sayyar al-Warraq’s Tenth-century Baghdadi Cookbook” by Nawal Nasrallah
Medieval Cooking Tips

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La ricetta dell’omelette araba del XIV secolo https://www.vitantica.net/2018/10/31/ricetta-omelette-araba-xvi-secolo/ https://www.vitantica.net/2018/10/31/ricetta-omelette-araba-xvi-secolo/#respond Wed, 31 Oct 2018 02:00:32 +0000 https://www.vitantica.net/?p=2405 Negli ultime decadi l’archeologia ha avuto modo di tradurre numerosi testi culinari risalenti al Medioevo, alcuni particolarmente interessanti perché ci consentono di effettuare un confronto tra la cucina antica e quella moderna.

E’ il caso di un manoscritto egiziano del XIV secolo, (“Tesoro di benefici e varietà sulla tavola“), che offre oltre 820 ricette diverse, casalinghe o destinate alla nobiltà del tempo. Le ricette comprendono piatti completi, digestivi, bevande rinfrescanti e pietanze calde o fredde.

Il testo risale ad un periodo in cui la capitale egiziana era una fiorente metropoli e un importantissimo centro culturale in cui svariate tradizioni orientali e occidentali si incontravano e si mescolavano in un mix unico nel suo genere.

Le ricette sono spesso brevi e danno per scontato la conoscenza di procedure culinarie e ingredienti dell’epoca. Molte provengono da fonti ignote, ma l’autore della collezione di ricette tende a sottolineare spesso quanto siano deliziosi questi piatti.

Il capitolo 7 del libro di cucina si concentra su tutti i modi conosciuti per cucinare le uova e riporta una delle più antiche ricette per realizzare un’ omelette. La ricetta, tradotta Nawal Nasrallah, è una delle 18 variazioni sull’omelette presenti nel libro, variazioni che comprendono ingredienti come fave, tartufi, cipolle e piselli.

Due di queste ricette sono considerate afrodisiache, una invece richiede l’utilizzo di ben 60 uova. Le “spezie piccanti” presenti invece nella ricetta riportata qui sotto sono probabilmente pepe nero e zenzero.

Prendere della carne, pestarla e bollirla, quindi pestarla nuovamente e friggerla nel grasso.
Tagliare finemente il prezzemolo macedone e metterlo, insieme alla carne, in una ciotola. Rompere le uova nella ciotola: aggiungere spezie piccanti, coriandolo, pane pestato e cannella di Ceylon.

 

Friggere in una padella in olio d’oliva e di sesamo.

La padella dovrebbe essere rotonda, con bordi alti, e un manico lungo come un mestolo. Dovrebbe essere posta sopra un fuoco basso di carbone con qualche cucchiaio di olio d’oliva e di sesamo. Aspettare fino a quando non sarà molto calda e versare la mistura di uova.

 

Per ogni omelette, usare 5 uova, un pizzico di erbe e spezie e la carne fritta. Riempire la padella con questi ingredienti e cuocere fino a quando non si saranno asciugati. Aggiungere un po’ di olio di sesamo e d’oliva e continuare a rivoltare l’omelette ogni tanto fino a raggiungere la cottura completa.

Pagine dal Kitab al-Tabikh
Pagine dal Kitab al-Tabikh

Il termine omelette inizia ad essere utilizzato in Francia intorno al XVI secolo, ma la ricetta sembra essere molto più antica: nel 1393 il libro “Le Ménagier de Paris“, una guida per il corretto comportamento casalingo delle donne, riporta una ricetta molto simile chiamata “alumelle“.

La ricetta araba ha invece come base il makhlama, una versione mediorientale dell’omelette conosciuta con molti nomi e realizzata in innumerevoli varianti, dal ‘ujja mudawwara (omelette a forma di disco) al narjisiyya (uova semicrude condite da una mistura di erbe aromatiche).

Una versione del makhlama è raccontata nel libro di ricette “Annali delle cucine del califfato” di Nawal Nasrallah, un’opera che comprende la traduzione delle ricette di Ibn Sayyar al-Warraq, celebre cuoco arabo del X secolo e autore del Kitab al-Tabikh (“Libro dei Piatti”), risalente al X secolo:

Tagliare la carne e farla a pezzi, ma non troppo piccoli. Mescolarli con qualche pezzo di grasso di rognone di bue. Cuocere la carne con cipolla fresca e porri, lasciandoli interi. Distribuire cipolle e porri sulla carne. Condire con sale, olio d’oliva, una spruzzata di cassia e galangal.

 

Aggiungere semi di coriandolo e un pizzico di cumino.

Rompere le uova sullacarne, romperne abbastanza da coprire tutta la padella, che dovrebbe essere di pietra. Disporre le uova in modo che somiglino a occhi.

 

Porre la padella sul suo supporto e inserire un rametto di ruta al centro di ogni tuorlo. Coprire la padella con un foglio di pane (markouk) facendo un foro nel centro grande quanto la circonferenza della padella.

Honoring Mother’s ‘Day’, Sumerian Style:And Breakfast of Makhlama for Mom
How to make an omelet, medieval-style

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