Ferite da freccia e medicina antica

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Il trattamento delle ferite di guerra rappresentò una delle principali priorità della medicina antica. Sebbene anche i nostri antenati avessero a che fare con problemi di salute del tutto simili ai nostri (malattie, incidenti domestici e malnutrizione erano tra le principali cause di infortuni e decessi), l’avanzata militare degli antichi imperi, la difesa dei confini e il mantenimento dell’ordine interno forzarono i curatori di tutto il mondo a sviluppare tecniche sempre più efficienti per medicare le ferite da trauma.

La tipologia di ferita più diffusa negli antichi ospedali da campo (se così possono essere definiti) era la perforazione da dardi e frecce. Dall’affermazione dell’arco come arma da lancio all’introduzione su larga scala delle armi da fuoco, le perforazioni da freccia non solo erano estremamente comuni sui campi di battaglia di ogni epoca e regione del mondo, ma erano anche molto complesse da medicare.

Contrariamente a ciò che si vede nella cinematografia moderna, estrarre una freccia dal corpo tentando di limitare i danni non era una procedura semplice ed esponeva ad un serie di rischi potenzialmente fatali, tra i quali il danneggiamento di vasi sanguigni e organi vitali o l’insorgere di infezioni difficilmente trattabili con la medicina popolare.

Ferite da freccia estremamente comuni

Secondo stime recenti (vedere le fonti in fondo al post), dal primo utilizzo dell’arco ad oggi il numero di morti causato da frecce è superiore a quello provocato da qualunque altra arma nella storia della guerra.

Nelle “sole” 56 battaglie combattute in Europa nel 1241 dal generale mongolo Subotai si contarono oltre mezzo milione di morti causati da frecce, con altrettanti feriti tra i ranghi degli invasori e delle popolazioni locali intente a difendere i loro territori tradizionali.

Le ferite da freccia furono quindi un’importante “spinta evolutiva” dell’antica ricerca medica. A differenza di un proiettile d’arma da fuoco, una freccia possiede poca energia cinetica pur penetrando a profondità simili a quelle rilevate per armi da fuoco di piccolo-medio calibro.

La cuspide tagliente, unita alla forza dell’impatto, provoca tagli profondi agli organi interni, e non lo spostamento dei tessuti molli osservabile nella penetrazione di un proiettile.

Al momento del contatto con il tessuto osseo, la maggior parte delle frecce tendeva a fermarsi e a scheggiarsi in frammenti difficilmente recuperabili. La frammentazione delle cuspidi complicava enormemente le operazioni d’estrazione, ma allo stesso tempo fornì impeto nella ricerca di metodologie capaci di ripulire le perforazioni dai corpi estranei più evidenti per limitare infezioni e favorire la guarigione.

Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia
Diversi tipi di cuspide utilizzati nella storia

Una cuspide rappresenta un’arma potenzialmente letale anche nella sua forma più semplice, ma nel corso della storia antica furono sviluppate diverse varianti della tradizionale punta di freccia, volte ad aumentare l’efficacia dei dardi. Barbigli, escrescenze taglienti e forme più o meno elaborate forzarono i chirurghi del passato a sviluppare strumenti d’estrazione specificamente legati alla morfologia delle cuspidi.

Secondo gli autori della ricerca “Arrow head wounds: major stimulus in the history of surgery“, gli strumenti operatori legati all’estrazione delle frecce costituirono una delle maggiori spinte propulsive per l’elaborazione della chirurgia moderna.

Uno dei metodi più rudimentali usati per la rimozione di dardi dal corpo è stato osservato a Tonga durante il XIX secolo, e fu probabilmente impiegato migliaia di anni fa in altre regioni del mondo: tramite conchiglie affilare e pezzi di bambù, gli abitanti dell’isola del Pacifico erano in grado di incidere il petto del ferito ed estrarre la freccia dalla sua sede.

Già nel VI – IV secolo a.C. il trattato medico Sushruta Samhita descriveva svariate tecniche di estrazione di una freccia, dall’incisione dei tessuti all’uso di pietre magnetiche. Uno dei metodi descritti prevede anche l’impiego di un uncino metallico in grado di agganciare la cuspide del dardo per facilitarne l’estrazione.

Le punte di freccia incastrate nelle ossa costituivano un problema ancora più serio; il Sushruta Samhita suggeriva un metodo di estrazione estremamente brutale (anche se apparentemente efficace): legare l’estremità di una corda alla cocca della freccia, agganciando l’altra estremità al morso di un cavallo da tiro.

Iatros, specialisti dell’estrazione di frecce

Omero introduce nei suoi poemi una figura chiamata iatros, traducibile come “colui che estrae frecce”. Si trattava di un vero e proprio specialista nell’estrazione di dardi dal corpo, suggerendo che questo genere di traumi fosse molto comune, specialmente in uno scenario bellico.

Dopo aver somministrato vino al paziente nella vana speranza di sedarlo, lo iatros procedeva all’estrazione della cuspide e di eventuali frammenti metallici o lignei, per poi medicare la ferita con bendaggi di lana ed misture anti-infiammatorie a base di piante o miele.

Particolarmente temute erano le frecce degli Sciti, noti per ricoprire le loro cuspidi con una mistura di veleno di serpente e sangue lasciata fermentare in mezzo al letame; se il ferito sopravviveva alla ferita e al veleno di serpente, era molto probabile che dovesse affrontare una gravissima infezione dalle conseguenze spesso fatali.

Dopo l’estrazione della cuspide e di eventuali altri frammenti del dardo, lo iatros succhiava la ferita nel tentativo di estrarre il veleno, trascurando il fatto, oggi noto ma al tempo sconosciuto, che la pratica di succhiare il veleno non ottiene alcun risultato apprezzabile, come spiegato in questo post.

Rimozione per estrazione o per espulsione

Cornelius Celsus, e successivamente Paolo di Egina, identificarono due principali metodologie di rimozione delle frecce: nel procedimento per extractionem la freccia veniva estratta dalla cavità seguendo al contrario il suo percorso d’entrata; nel sistema per expulsionem, invece, la freccia, possibilmente ancora attaccata al suo fusto, veniva spinta più volte verso un’incisione dei tessuti praticata nel lato opposto rispetto al punto d’ingresso.

La rimozione per expulsionem era sempre preferibile rispetto all’estrazione, perché tendeva a limitare i danni causati agli organi interni e l’allargamento della ferita d’ingresso necessario alla rimozione del dardo. Il procedimento per expulsionem facilitava inoltre l’espulsione di cuspidi dotate di barbigli, che dovevano essere necessariamente recisi prima di un’estrazione per evitare di causare ulteriori danni agli organi interni.

Cornelius Celsus menziona uno strumento specifico per le estrazioni, il cucchiaio di Diocle. L’unico esemplare conosciuto è stato rinvenuto nella “domus del chirurgo” di Rimini ed è essenzialmente uno strumento dotato di lamina a forma di cucchiaio, con un foro centrale per bloccare la freccia e facilitare l’estrazione.

Paolo di Egina raccomanda l’uso dell’estrazione solo nei casi in cui la penetrazione della cuspide sia superficiale, o nella situazione in cui un’espulsione avrebbe causato danni a vasi sanguigni, nervi o organi interni. Descrive anche uno speciale strumento, il propulsorium, utilizzato per l’espulsione di una cuspide, e la pratica di legare i vasi sanguigni prima di procedere alla rimozione del dardo.

Uomo delle Ferite
Uomo delle Ferite

Durante il Medioevo, il trattamento delle ferite da freccia era basato sulle pratiche utilizzate dai medici del passato. Anche se la Scuola Salernitana e il mondo medico arabo introdussero nuove nozioni e strumenti chirurgici, le fondamenta del trattamento delle ferite da freccia rimasero sostanzialmente invariate rispetto ai secoli precedenti.

Come si può leggere in questo post:

“L’estrazione di una freccia seguiva tre linee guida: valutazione della zona di penetrazione della freccia, esame di eventuali tracce di veleno e, per finire, l’estrazione vera e propria.

 

La freccia doveva essere estratta con delicatezza ma il più velocemente possibile, limitando la perdita di sangue e la contaminazione della ferita. Anche se furono proposti molti metodi in grado di far uscire spontaneamente i dardi conficcati in un corpo umano (Avicenna proponeva una mistura di radice di canna di fiume e bulbo di narciso, mentre Abu Bakr al-Razi aveva compilato una lista di “droghe estrattive”), la soluzione più efficace rimaneva la chirurgia.”

Uno dei metodi più semplici e comuni per la rimozione di frecce dotate di barbigli prevedeva l’impiego di due penne d’oca. Ideata intorno al 1300 dal medico belga Jan Ypermans, questa tecnica utilizzava due penne cave prive di punta il cui fusto doveva raggiungere e ricoprire i barbigli della cuspide (generalmente 2): in questo modo, i barbigli non avrebbero avuto modo di arpionare i tessuti durante l’estrazione, facilitando notevolmente la rimozione della freccia. Questa pratica non era sicuramente indolore: era necessario determinare precisamente la posizione della cuspide sondando la ferita, e inserire i due fusti di penne nella cavità prima di procedere all’estrazione.

Ferite da freccia nel mondo moderno

L’uso dell’arco è oggigiorno un puro e semplice passatempo, che si pratichi la caccia o il tiro al bersaglio. Il numero di ferite da freccia è enormemente diminuito dopo l’introduzione su larga scala della polvere da sparo e la regolamentazione delle armi bianche e da fuoco.

Gli incidenti, tuttavia, capitano con relativa facilità, specialmente se ad impugnare le armi sono persone inesperte. Anche se disponiamo di strumenti chirurgici all’avanguardia, anestesia e igiene di gran lunga superiore ai secoli passati, ancora oggi il personale medico si trova in difficoltà di fronte all’estrazione di una freccia.

Nel 2010 fu documentato il caso di un uomo di 35 anni ricoverato in ospedale per una perforazione cranica causata dall’impatto di una cuspide di freccia. Il paziente riportò lesioni cerebrali che migliorarono dopo la rimozione del dardo, ma il personale medico annotò la particolare difficoltà incontrata nella rimozione del corpo estraneo.

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Treatment of Arrow Wounds: A Review
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One Comment on “Ferite da freccia e medicina antica”

  1. Nel XV secolo anche la medicina occidentale usava l’ oppio come anestetico nella chirurgia di guerra, se disponibile.Le pur incerte statistiche del tempo tramandano notizia di un tasso di mortalità’ intraoperatoria verosimilmente da blocco respiratorio morfino- indotto del 50% circa. Tanto accadde per esempio durante le feroci giornate del vittorioso assedio sostenuto dai valligiani di Gruye’re contro l’ invasore borgognone Carlo il Grosso, rievocato ogni anno con una ricostruzione storica anche della “sala operatoria” e dei suoi strumenti,interessante per certe anticipazioni di tecniche traumatologiche ossee ( “gessi”)e di estrazione corpi estranei vari ma ai nostri occhi
    suggestiva di una bizzarra sala di torture.

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