Breve storia della medicazione delle ferite da trauma fino al XVII secolo

Medicazione e cura delle ferite nella storia
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La cura delle ferite nella storia antica fu più un’arte che una vera e propria scienza. Pur non disponendo di un concetti medici tali da determinare l’esatta origine di infezioni o la precisa natura delle ferite, e non realizzando completamente l’importanza dell’igiene, gli antichi curatori riuscirono ugualmente a identificare, tramite tentativi ed errori, sostanze naturali e pratiche medico-chirurgiche in grado di trattare le ferite causate da armi o incidenti.

Nel corso della storia umana, una ferita era spesso legata all’insorgenza di malattie dovute a infezioni batteriche. La sepsi è una risposta infiammatoria all’invasione di tessuti sensibili da parte di microrganismi patogeni: gli antichi Greci la chiamavano “sepsis“, putrefazione, o “septikos“, setticemia, e spesso mieteva vittime più che le ferite stesse; ancora oggi ha un tasso di mortalità cinque volte superiore a quello dell’ictus e dieci volte superiore all’infarto.

Una ferita aperta non medicata causava spesso la comparsa dei sintomi della setticemia: febbre alta o ipotermia, frequenza cardiaca accelerata, stato mentale alterato, anomalie di coagulazione del sangue e gangrena.

Le condizioni igieniche del passato erano tali da causare frequenti infezioni di ferite aperte, specialmente in circostanze in cui medicare efficacemente e velocemente i tessuti esposti era di fatto impossibile, come durante uno scontro armato o lontano da centri abitati.

Molti avanzamenti della scienza medica passata furono possibili grazie alla cura dei soldati feriti in battaglia. Anche se alcune sostanze e pratiche usate per prevenire le infezioni o per favorire la guarigione si rivelavano efficaci, la componente magico-religiosa era, secondo la medicina babilonese, greca o egizia, importante quanto l’uso di composti curativi.

Nel Medioevo la situazione non fu affatto migliore: superstizione e tabù religiosi impedirono un vero e proprio avanzamento della scienza medica. Fu solo con l’invenzione del microscopio e l’analisi della struttura cellulare degli organismi viventi che si riuscì a compiere un enorme balzo in avanti nel trattamento di ferite e infezioni.

Medicazioni delle ferite nell’antica Mesopotamia

In Mesopotamia, la medicina era di due tipi: terapeutica (praticata da dottori chiamati asu o azu) e di tipo divinatoria/religiosa (praticata da persone chiamate ashipu). Sia la medicina terapeutica che quella religiosa adoperavano come ingredienti oltre 250 piante, 120 sostanze minerali e circa 180 composti da consumare con miele, grasso, latte o olio.

Birra curativa

Una delle più antiche medicazioni per le ferite fu la birra. I Sumeri producevano almeno 19 tipi di birra differenti, alcuni dei quali impiegati nella medicina tradizionale mesopotamica. Una tavoletta cuneiforme risalente a circa 4.200 anni fa riporta una ricetta per la medicazione delle ferite:

mescolare trementina di pelliccia e di pino, tamarisco, margherita, farina di grano inninnu; aggiungere latte e birra in un piccolo recipiente di rame; spalmare sulla pelle, bendare e lasciar recuperare il paziente

Il trattamento delle ferite seguiva una procedura in due fasi: applicazione di pomate e fasciatura. In alcuni casi era previsto anche un lavaggio preliminare con birra o acqua calda, ma secondo la medicina sumero-babilonese non era indispensabile per la prevenzione di tutte le infezioni, e l’acqua utilizzata era spesso ricca di microrganismi in grado di infettare una ferita.

Aloe

Uno dei trattamenti più comuni a Nippur circa 2.000 anni fa era l’impiego di aloe vera (Aloe barbadensis): una mistura di aloe veniva applicata sulla ferita per favorire la cicatrizzazione e per prevenire le infezioni.

Trattamento delle ferite nell’antico Egitto

Gli Egizi furono probabilmente i primi a ideare bendaggi adesivi e ad utilizzare il miele per la medicazione delle ferite; sono stati anche i primi a riconoscere la differenza tra ferite acute e ferite croniche.

Fasciature delle ferite con miele

Il miele, come il grasso, le resine vegetali e le garze, furono i componenti primari di ciò che gli Egizi chiamavano “ingessatura”: non si trattava di involucri rigidi come il gesso moderno, ma di protezioni per ferite suturate volte ad evitare che la sporcizia entrasse a contatto con i tessuti, o per assorbire i fluidi emessi dai tessuti lesi.

Grasso, miele e olio erano componenti di base di ogni bendaggio perché forniscono ai batteri un ambiente relativamente ostile in cui faticano a proliferare; sono inoltre sostanze che prevenivano che i bendaggi si attaccassero ai fluidi coagulati emessi dalla ferita.

Le garze egizie venivano realizzate con fibre vegetali, come viene spiegato anche nel Papiro di Edwin Smith, un testo medico risalente a circa 3.600 anni fa che descrive 48 tipi differenti di ferite e i rispettivi trattamenti (leggi qui i dettagli sul Papiro chirurgico di Edwin Smith).

L’aggiunta di miele non solo evitava l’ingresso nella ferita di microrganismi, ma aveva anche un valido effetto antibatterico, un effetto conosciuto da millenni anche in altre regioni del pianeta e di recente riconosciuto anche dalla scienza moderna (come in questa ricerca del 2015: Honey: A Biologic Wound Dressing ).

Papiro Chirurgico di Edwin Smith
Pagine dal Papiro Chirurgico di Edwin Smith
Dipingere di verde la ferita

In aggiunta alle medicazioni, gli Egizi dipingevano le ferite di verde perché era il colore che simboleggiava la vita. Inconsapevolmente, ciò che per loro era una pratica legata alla magia aveva anche un’azione antibatterica: il pigmento verde era basato sull’acetato di rame, un composto tossico per i batteri e che ne blocca la proliferazione. Non era raro anche l’utilizzo di composti a base di mercurio, dalle forti proprietà antibatteriche ma anche molto tossico per l’organismo.

Cauterizzazione e resine

Il Papiro di Edwin Smith è uno dei primi testi medici redatti sul Mediterraneo che descrive la cauterizzazione delle ferite. La cauterizzazione veniva impiegata principalmente per fermare le emorragie: spesso limitava la perdita di sangue, ma una medicazione non corretta alle ustioni provocate dalla cauterizzazione poteva causare infezioni o necrosi.

Gli Egizi importavano mirra e incenso, oltre che resina di pino e di altri alberi resinosi, da utilizzare come composto per le pomate curative. Anche se non è ancora stata chiarita l’effettiva azione antibatterica di queste resine su una ferita aperta, l’aroma di resina contribuiva a nascondere l’odore della putrefazione e della suppurazione.

Escrementi d’asino

Un altro trattamento relativamente comune per le ferite era l’applicazione di feci d’asino sulle lesioni. Secondo gli Egizi, le ferite aperte erano un possibile punto d’ingresso per gli spiriti negativi e applicare una sostanza repellente avrebbe contribuito a preservare l’integrità spirituale del paziente.

Per quanto ripugnante possa sembrare questo trattamento, aveva una sua valenza pratica: le feci d’asino (come quelle di molti animali provvisti di pancreas) contengono tripsina, un enzima che, secondo alcuni ricercatori, potrebbe aver contribuito a favorire il processo di guarigione.

Le ferite nell’antica Grecia e nel territorio romano

L’Iliade di Omero è considerato il primo testo scritto che contiene riferimenti alla medicazione di ferite subite battaglia. Re Menelao sopravvive dopo l’estrazione di una freccia dal fianco compiuta da Macaone, figlio di Asclepio (la divinità della medicina secondo i Greci).

L’importanza della pulizia

I Greci furono forse i primi a rendersi conto dell’importanza della pulizia di una ferita: i medici raccomandavano lavaggi frequenti con acqua pulita, spesso bollita prima dell’uso, o lavaggi con aceto e vino. Già dal V secolo a.C. i bendaggi erano ormai diventati pratica comune e i medici sapevano che un bendaggio troppo stretto avrebbe favorito la cancrena.

Achille applica una benda sulle ferite di Patroclo su questo vaso del 500 a.C.
Achille applica una benda sulle ferite di Patroclo su questo vaso del 500 a.C.

Anche i Greci, come gli Egizi (da cui ereditarono molte pratiche mediche), facevano una distinzione tra ferite acute e croniche, chiamando “fresche” le prime e “non guaribili” le seconde.

Galeno di Pergamo

Galeno di Pergamo, il celebre medico dei gladiatori del II secolo d.C., riconobbe per primo l’importanza di mantenere umida la zona della ferita per favorire la guarigione, contrariamente a quanto diceva Ippocrate, che sosteneva che fosse necessario mantenere asciutta la ferita per favorirne la guarigione.

Grazie alle ricerche di Galeno, le cui teorie costituirono la base dei successivi 1.300 anni di medicina occidentale, gli antichi furono in grado di comprendere a grandi linee la circolazione sanguigna e di possedere una serie di nozioni che favorirono il trattamento di ferite aperte, specialmente nei valetudinaria romani (ospedali da campo in cui venivano medicati i soldati feriti).

Come fermare un’emorragia

Galeno è anche il primo a descrivere quattro modi differenti per fermare un’emorragia: applicare pressione diretta con un dito, chiudere il taglio con un uncino, afferrare i lembi della ferita per unirli o applicare astringenti. Uno degli astringenti suggeriti da Galeno era una mistura di incenso, aloe, albume d’uovo e un pizzico di peli di lepre.

Legatura dei vasi sanguigni

A Ippocrate e Galeno viene attribuita la tecnica di legatura dei vasi sanguigni: per fermare la perdita di sangue, un vaso sanguigno veniva legato con un filo da suturazione, una tecnica ripresa circa 1.500 anni dopo da Ambroise Paré, considerato uno dei padri della chirurgia.

Verdigris e pomate

Anche i Greci utilizzavano pomate a base di grasso o olio, e come gli Egizi impiegavano il verdigris, il pigmento verde ottenuto con l’applicazione di acido acetico su lastre di rame.

Altri medicamenti utilizzati erano pomate a base di linfa di fico, o polveri minerali mescolate a vino o aceto e applicate dopo il lavaggio della ferita: polvere di zinco e rame erano molto comuni, ma anche quella d’argento, un metallo impiegato anche per purificare l’acqua.

La cura delle ferite in India
Cura delle ferite in India: radice di curcuma bollita
Radice di curcuma bollita

I medici e chirurghi indiani praticavano ciò che veniva definita Shalya Tantra, un ramo della medicina ayurvedica. La medicina indiana prevedeva la rimozione dei componenti estranei presenti nella ferita prima di medicarla, e un lavaggio accurato prima di suturarla (la medicina indiana contemplava quattro metodi diversi di suturazione).

Per la medicazione delle ferite era prevista l’applicazione di composti a base di piante e minerali. Le analisi di qesti composti hanno dimostrato che piante come il Ficus bengalensis, il Cynodon dactylon, l’ Aloe vera, la Rubia cordifolia e l’ Euphorbia nerifolia hanno effettivamente proprietà antibatteriche o cicatrizzanti, tanto da essere state incorporate nella medicina moderna.

La curcuma

La curcuma è una spezia che trovò largo impiego nelle medicazioni di ferite. La curcuma contiene curcumina, un composto antiossidante che allevia il dolore, contribuisce a tenere sotto controllo eventuali infiammazioni e accelera il processo di cicatrizzazione.

La curcuma medicinale veniva preparata sotto forma di pasta, spalmata sull’area della ferita e coperta da un bendaggio. Ancora oggi questa tecnica viene impiegata in alcune comunità rurali indiane.

Trattamento delle ferite nel Medievo
Uomo delle Ferite
“Uomo delle Ferite”
Periodo di stallo

Durante il corso del Medioevo non ci furono grandi avanzamenti nella medicazione delle ferite, con alcune eccezioni.

L’ultimo esponente della scuola medica greco-romana fu Paolo di Egina (VII secolo): dopo di lui, per oltre tre secoli non si registrarono innovazioni nel trattamento delle ferite o, più in generale, nella medicina mediterranea.

Il lavoro di Galeno, Ippocrate e dei grandi medici del passato furono utilizzati per secoli interi come fonte primaria per il trattamento delle ferite più comuni; ci furono tuttavia alcuni innovatori, come Avicenna o il medico tedesco del XIII secolo Ortolf von Baierland, che utilizzava (e probabilmente aveva perfezionato) la raffigurazione che viene comunemente definita “Uomo delle Ferite”.

Nuovi strumenti chirurgici, il catgut e la Scuola Salernitana

La cauterizzazione continuò ad essere impiegato come trattamento comune per molte ferite: anche se era utilizzata principalmente per fermare la perdita di sangue, era impiegata anche dopo l’estrazione di denti. Il grande medico arabo Al-Zahrawi scrisse durante il X secolo un trattato che analizzava approfonditamente le tecniche e gli strumenti di cauterizzazione.

Ad Al-Zahrawi si deve anche l’invenzione di oltre 200 strumenti chirurgici e il catgut, un filo chirurgico ottenuto dal tessuto connettivo animale che viene riassorbito dall’organismo in circa 30 giorni.

In Europa, fu solo nell’XI che si ebbero i primi, veri avanzamenti nel trattamento delle ferite con la Scuola Medica Salernitana: anche se la teoria era basata principalmente su Ippocrate e Galeno, grande importanza veniva data all’esperienza quotidiana dei chirurghi e alla traduzione dei testi arabi, gli unici che contenevano qualche concetto realmente innovativo per il trattamento di ferite e malattie.

Nel XIV secolo il medico francese , Guy de Chauliac, proponeva un’idea molto moderna per il trattamento delle ferite: rimozione di corpi estranei, avvicinamento delle parti separate, suturazione, conservazione dei fluidi vitali all’interno del corpo e trattamento delle complicazioni. De Chauliac propose anche l’uso di mandragora, oppio e altre sostanze come antidolorifici da utilizzare durante e dopo la chirurgia.

Estrazione di frecce

Come in passato, anche nel Medioevo l’ estrazione di frecce dal corpo era pratica relativamente comune. L’estrazione di una freccia seguiva tre linee guida: valutazione della zona di penetrazione della freccia, esame di eventuali tracce di veleno e, per finire, l’estrazione vera e propria.

La freccia doveva essere estratta con delicatezza ma il più velocemente possibile, limitando la perdita di sangue e la contaminazione della ferita. Anche se furono proposti molti metodi in grado di far uscire spontaneamente i dardi conficcati in un corpo umano (Avicenna proponeva una mistura di radice di canna di fiume e bulbo di narciso, mentre Abu Bakr al-Razi aveva compilato una lista di “droghe estrattive”), la soluzione più efficace rimaneva la chirurgia.

Le frecce dalla testa larga (broadhead) causavano lacerazioni più larghe e spesso era preferibile incidere l’estremità opposta al punto di penetrazione per spingere il dardo fuori dal corpo, invece di tirare in direzione opposta al quella di provenienza del colpo: in questo modo, si rischiava di provocare ulteriori lacerazioni o di causare la rottura della freccia, rendendo ancora più difficile l’estrazione.

Amputazioni record

I medici del Basso Medioevo iniziarono a raggiungere straordinari livelli di velocità nell’amputazione di arti: le ferite da arma da taglio più profonde venivano spesso “trattate” amputando un arto in pochi minuti, spendendo qualche altro minuto per cauterizzare il moncherino rimasto e fermare il sanguinamento.

La mortalità in caso di amputazione era elevatissima: 39% nel caso di amputazione di braccia o gambe sotto il ginocchio, fino al 62% per amputazioni di una gamba intera. Per evitare la setticemia si medicavano le amputazioni seguento gli stessi metodi utilizzati nei secoli precedenti: miele, grasso, argilla, trementina e bendaggi.

La cura delle ferite dal XV secolo in poi

Al termine del Medioevo iniziano ad essere elaborate alcune tecniche di medicazione delle ferite che avranno ripercussioni nella medicina moderna. L’ “Uomo delle Ferite” nato in epoca medievale iniziò a diffondersi in forma stampata in opere mediche come il trattato del 1491 Fasciculus medicinae, un’opera stampata in circa 25 edizioni e tradotta in italiano, spagnolo, tedesco e olandese.

Pagine del Fasciculus medicinae
Pagine del Fasciculus medicinae

La diffusione a basso costo dello zucchero in Europa a partire dal XVII-XVIII secolo contribuì all’utilizzo dei suoi cristalli come alternativa al miele nel trattamento delle ferite: i cristalli di zucchero assorbono acqua tramite osmosi, asciugando la lacerazione per rallentare la proliferazione di microrganismi e promuovendo la formazione di tessuti cicatriziali.

Le nuove ferite da arma da fuoco

L’impiego sempre più frequente di armi da fuoco creò una nuova gamma di ferite e perforazioni che i medici del tempo furono inizialmente incapaci di medicare. Il chirurgo italiano Giovanni da Vigo (1450 – 1525) riteneva che i proiettili trasportassero sostanze velenose e raccomandava il trattamento delle ferite da arma da fuoco con olio bollente per contrastare le tossine contenute nella polvere da sparo.

Della stessa opinione era il chirurgo tedesco Hieronymous Brunschwig, che nel 1497 scrisse:

Nel caso un uomo sia stato colpito da un’arma da fuoco e il proiettile sia ancora all’interno, è ormai stato avvelenato dalla polvere, o parte della polvere è rimasta nel corpo, nel braccio o nella gamba o ovunque si trovi la ferita. Prendere un pezzo di cotone, spingerlo nella ferita e tirarlo avanti e indietro per forzare la fuoriuscita della polvere.

Ambroise Paré: alternative a cauterizzazione

Ambroise Paré, chirurgo del re di Francia Enrico II, è il primo a condannare la suppurazione forzata delle ferite e la cauterizzazione, due pratiche molto frequenti durante i secoli passati perché, secondo i dotti del tempo, contribuivano ad eliminare gli “umori negativi” che infettavano il corpo.

Provocare volutamente la formazione di pus e applicare olio bollente erano trattamenti comuni sulle ferite da amputazione o da arma da fuoco. Paré condannò la espressamente queste pratiche fornendo alcune alternative, come l’applicazione di una mistura di tuorlo d’uovo, olio di rose e trementina.

Paré riformulò inoltre la legatura dei vasi sanguigni e fece numerose osservazioni sulla presenza di larve parassite all’interno di ferite infette; fu anche il primo ad iniziare ad allontanarsi dalla lunga “tradizione” di cauterizzazioni del Medioevo, anche se la sua tecnica di legatura dei vasi sanguigni non diminuiva la mortalità dei pazienti a causa delle spesso scarse condizioni igieniche.

Amputazioni diventano pratica comune

Richard Wiseman fu uno dei primi a comprendere l’effettiva portata dei danni causati dai proiettili di armi da fuoco: nel suo Of Wounds, Of Gun-Shot Wounds and Of Fractures and Luxations, pubblicato nel 1676, spiega come questo genere di ferite causavano gravi emorragie interne se il proiettile non veniva estratto velocemente.

Come suggerisce questo testo e molti altri dell’epoca, chi subiva ferite da proiettili andava spesso incontro all’amputazione. John Moyle nel suo Abstractum Chirurgiae Marinae (1714) spiega chiaramente che i chirurghi navali dovevano essere decisi nello stabilire la necessità di amputare anche quando i pazienti si opponevano in ogni modo.

Nel 1674 EtienneJ. Morel fu il primo ad utilizzare il laccio emostatico per le amputazioni. Come medico dell’esercito francese durante l’assedio di Besancon, contribuì alla diffusione della legatura dei vasi sanguigni, ma l’evoluzione del suo laccio ideata da Jean Luis Petit qualche decade dopo fece ritornare di moda le amputazioni rendendo possibile la rimozione di un arto a due soli uomini (quando prima era necessaria la presenza di molte persone durante l’operazione).

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6 Comments on “Breve storia della medicazione delle ferite da trauma fino al XVII secolo”

  1. Si ritiene che durante il fallito assedio turco di Malta anche la superiorita’ sanitaria degli eroici difensori comandati da La Vallette abbia infine contribuito a fare la differenza.Prima di asserragliarsi entro i bastioni, gli occidentali avevano ammassato molta acqua di mare in numerose anfore e le suore avevano lavato e conservato panni di lino.Ancora durante le guerre napoleoniche, a un ferito poteva capitare l’affidamento della sua ferita infetta e secernente a un commilitone,che la zaffasse con …la paglia del suo giaciglio.Solo durante la grande guerra i concetti sanitari empirici e intuitivi dell’ordine di Malta(da cui proviene ora il suo prestigio sanitario),ispirarono l’epistemologia medica dell’ID,installazione-drenaggio:lavaggio H24 della ferita per caduta per gravita’ di acqua salata o meglio di ipoclorito di sodio(soluzione di Dakar) e sottrazione dell’essudato con teli sterili di cotone,piu’ economico del Lino ma capace di trattenere acqua fino al 70% del suo peso.

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