Ricostruite punte di frecce e propulsori del Pleistocene

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Il lavoro dell’archeologo è costituito in buona parte dall’interpretazione logica e sensata dei reperti in nostro possesso: ossa, utensili e opere artistiche possono fornire numerosissime informazioni sulle società del passato e aprire una finestra sullo stile di vita dei nostri antenati.

Spesso tuttavia mancano informazioni su come venissero realizzati alcuni oggetti e sulla loro reale efficacia nello svolgere il compito per il quale furono prodotti. Un esempio sono le armi preistoriche: quali sono state le tecniche più comuni per realizzare punte e lame di pietra? Quanto erano efficaci gli utensili litici prodotti per svariate migliaia di anni dai nostri predecessori?

Per ottenere qualche risposta a questi quesiti gli archeologi della University of Washington, capitanati dalla ricercatrice Janice Wood, hanno recentemente pubblicato un articolo su Journal of Archaeological Science in cui descrivono come sono stati in grado di ricreare e testare alcune punte di pietra del tutto simili a quelle rinvenute in siti archeologici nordamericani risalenti all’ Età della Pietra.

Non è la prima ricerca di questo tipo ad essere condotta negli ultimi anni: l’archeologia sperimentale, se fatta con criterio, si sta rivelando uno strumento utilissimo per formulare ipotesi e teorie sulla tecnologia impiegata dai nostri antenati preistorici, come nel caso dei test effettuati sulla ricostruzione della clava del Tamigi.

Il team ha deciso di concentrarsi sulle armi da caccia prodotte circa 10-14.000 anni fa, un periodo che vide la nascita di svariati modelli di punte di proiettili, probabilmente per far fronte a tecniche di caccia diverse in base alla preda.
“I cacciatori-raccoglitori di 12.000 anni fa erano molto più sofisticati di quanto gli riconosciamo” sostiene Ben Fitzhugh, professore di antropologia della University of Washington. “Non abbiamo mai considerato che i cacciatori-raccoglitori del Pleistocene possedessero quel livello di sofisticazione, ma è chiaro che producessero questi strumenti per ciò che dovevano affrontare quotidianamente, come per le attività di caccia. Avevano una vasta comprensione dei diversi strumenti che producevano e dello strumento migliore per una determinata preda o determinate condizioni di caccia”.

Punte di freccia create da Wood e dai suoi colleghi
Punte di freccia create da Wood e dai suoi colleghi

I gruppi nomadi che vivevano in Alaska e in Siberia si nutrivano principalmente di piante spontanee e di animali ottenuti dalla caccia, come caribù e renne (che appartengono in realtà alla stessa specie, Rangifer tarandus). Le armi più comuni per la caccia di questi animali erano quasi certamente le lance e i propulsori, ma si tratta di strumenti che hanno la spiacevole tendenza di conservarsi solo parzialmente con il passare del tempo: tutte le parti costituite da materia organica, come il legno o il tendine usato per fissare le lame, vengono facilmente decomposte, mentre le punte in pietra e osso si conservano molto più facilmente anche dopo svariati millenni.

E’ quindi difficile capire la balistica di questi oggetti, ancor di più la loro reale efficacia nella caccia di grossi quadrupedi. Fino ad ora sono stati rinvenuti tre tipologie di punte utilizzate in Alaska e Siberia:

Wood e il suo team hanno deciso di ricreare 30 di queste punte, 10 per ogni tipo, cercando di utilizzare quando possibile gli stessi materiali impiegati nel Pleistocene e usando come aste legno di pioppo assicurato alle punte con colla di catrame di betulla. Questi oggetti sono quindi stati messi alla prova con un blocco di gelatina balistica e una carcassa fresca di renna acquistata in una fattoria.

Le punte composite si sono rivelate le più efficaci rispetto a quelle di sola pietra o osso contro prede di piccola taglia, causando ferite incapacitanti indipendentemente dal punto d’impatto. Le punte d’osso tendevano a penetrare più profondamente nei corpi di animali di grossa taglia generando cavità sottili e riuscendo a raggiungere gli organi interni; quelle di pietra invece causavano ferite di maggiori dimensioni e probabilmente portavano ad uccisioni più veloci a causa della vasta lacerazione dei tessuti.

“Abbiamo mostrato che ogni lama ha i suoi punti di forza” spiega Wood. “E’ tutto legato alla preda stessa; gli animali reagiscono in modo diverso in base alle ferite che subiscono. Per questi cacciatori nomadi era importante uccidere l’animale con efficienza, cacciavano per ottenere cibo”.

Reconstructing an ancient lethal weapon


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